giovedì 26 febbraio 2009

L'atomo comunista


Silvio Berlusconi, senza chiedere il permesso a nessuno, ha firmato un paio di giorni fa un accordo con il primo ministro francese Sarkozy in nome del popolo italiano per la riproliferazione del nucleare nel nostro paese. Peccato che il popolo italiano non sia minimamente stato messo al corrente delle trattative in corso. Ma, come al solito, è stato posto di fronte al fatto compiuto. Prendere o lasciare. Così come è accaduto per la fantomatica cordata per il salvataggio Alitalia. Così come è accaduto per gli accordi sottobanco con Gheddafi. D'altra parte l'idea distorta che Berlusconi ha della democrazia è che, siccome il popolo l'ha votato, lui può fare quello che vuole, senza rendere conto a nessuno del proprio operato. Come se il voto delle urne fosse un assegno in bianco. L'annuncio è infatti arrivato a sorpresa, quando tutto era già stato deciso a tavolino, calato dall'alto e giustificato con la solita manfrina del "fanatismo ideologico di una parte politica".

Ora in tanti si chiedono se questo accordo sia da considerare legittimo o se invece calpesti illegalmente la volontà popolare espressa nel referendum dell'87 che diede il "la" di fatto alla rinuncia in toto all'energia nucleare e allo smantellamento delle quattro centrali nucleari già presenti sul territorio.

E' bene fare un po' di chiarezza su questo punto, vista la disinformazione totale che viene data in pasto all'opinione pubblica. Il punto è che i tre quesiti referendari proposti non parlavano esplicitamente di rinuncia al nucleare. Il primo quesito riguardava la possibilità o meno da parte del Cipe di aggirare l'ostruzionismo dei piccoli comuni in cui si sarebbero dovute costruire nuove centrali nucleari. Il secondo riguardava l'abolizione degli incentivi economici a quei comuni che accettavano di installare nel proprio territorio delle centrali nucleari. Il terzo riguardava la possibilità da parte dell'Enel di partecipare ad accordi internazionali per la costruzione e la gestione di centrali nucleari all'estero.

Dunque nessun esplicito rifiuto del nucleare. Semplicemente abrogazione di norme che ne avrebbero facilitato la proliferazione. La differenza è sottile, ma fondamentale. Con quel referendum l'Italia non si impegnava a rinunciare al nucleare per sempre, ma poneva semplicemente dei paletti che ne avrebbero ostacolato uno sviluppo futuro.

E perchè allora in modo così drastico si decise di mettere la parola fine all'energia atomica in Italia e si decise di smantellare con furia iconoclasta le quattro centrali attive in Italia, tre delle quali erano tra l'altro arrivate alla fine del loro ciclo produttivo? Semplicemente perchè quel referendum fu interpretato come volontà popolare di dire addio definitivamente a quel tipo di energia.

E qui arriviamo al punto nodale. Alla mistificazione, che Berlusconi vuole far passare, contando sulla mancanza di memoria dei cittadini, di una decisione, presa vent'anni fa, in realtà per motivi molto più complessi che non per semplice accondiscendenza verso un manipolo di "fanatici ambientalisti".

La verità, come al solito, è esattamente il contrario di quella che vuol fare credere il nostro premier. Ma siccome è molto più semplice agitare il fantasma del "pericolo rosso" e liquidare ogni questione come "fanatismo di sinistra" che invece informarsi e capire come effettivamente sono andate le cose, ci ritroviamo oggi con molta gente che dà ragione al presidente del consiglio, insulta coloro che si oppongono, per i motivi più disparati, al nucleare, e, senza sapere di cosa sta parlando, li accusa dell'arretratezza e della dipendenza energetica dell'Italia dalla Francia.

Perchè se solo si andasse indietro a rileggersi la storia di questi giorni si scoprirebbe che le cose stanno in maniera completamente diversa.

Tutto scaturisce dal disastroso incidente di Cernobyl dell'anno precedente. L'eco mediatica del terrore si diffonde in tutta Europa. A quel tempo, in Italia, sono presenti sul territorio ed operano già da una ventina d'anni ben quattro centrali nucleari. A quel punto, se da una parte è sicuramente indubbio che le proteste ambientaliste cercarono in tutti i modi di combattere la battaglia della "denuclearizzazione", dall'altra è innegabile che questa richiesta di rinuncia al nucleare, sull'onda dell'emozione per i fatti di Cernobyl, fu cavalcata, gestita, sfruttata e manovrata a livelli assai più alti.

Il governo in carica si adoperò per la promozione dei referendum "anti-nucleare", la popolazione fu spinta in massa a votare SI all'abrogazione delle leggi pro-nucleare, tant'è che il referendum finì con un plebiscito: più dell'80% dei votanti si espresse a favore delle richieste degli ambientalisti.

Erano tutti fanatici sinistroidi? Manco per sogno.

E soprattutto, chi c'era al governo a sostenere con forza il referendum?

C'era quello che da lì a poco sarebbe diventato l'amico intimo di Silvio Berlusconi, ovvero Bettino Craxi, che, in una conferenza stampa memorabile, si impegnava in una campagna decisa contro il nucleare. A quel tempo Craxi godeva di una leadership notevole, invidiata e ostacolata in tutti i modi dalla DC (contraria all'abolizione del nucleare), ma soprattutto esercitava un fascino dirompente su gran parte della popolazione. Anche per questo il referendum ebbe quell'esito tanto perentorio. Altro che esaltati comunisti.

La rinuncia al nucleare fu benedetta proprio da Bettino Craxi, il mentore di colui che ora punta il dito contro i fanatismi della sinistra.

Ma non solo Craxi. Anche i governi democristiani che si successero di lì a poco alla fine continuarono su quella strada interpretando il referendum e imponendo moratorie di cinque anni in cinque anni sulla costruzione di centrali nucleari in Italia. Anzi quelle poche che c'erano furono smantellate con il pieno consenso dei governi social-democristiani.

E qui si arriva al nocciolo della questione. Perchè i governi cavalcarono le paure della gente, probabilmente molte delle quali infondate? Perchè la stampa ingigantì il problema, fece disinformazione totale sui rischi del nucleare facendone il ritratto di una forma di energia diabolica e da rigettare in toto? Perchè nessun governo si oppose al "fanatismo degli ambientalisti", ma anzi lo incoraggiò e lo supportò con tutte le forze a disposizione?

La verità è che la "minaccia del nucleare" era in realtà una minaccia per le compagnie petrolifere. Se in Italia si fosse continuato sulla strada del nucleare, come si fece più o meno in tutto il resto d'Europa nonostante l'effetto Cernobyl, i grandi petrolieri avrebbero visto i loro guadagni ridotti drasticamente.

La battaglia contro il nucleare era in realtà una battaglia combattuta sul campo dagli ambientalisti, ma gestita a livelli più alti dalle compagnie petrolifere, alle quali i governi, volenti o nolenti, dovevano rendere conto.

Ma non solo. Ci furono aspetti molto più loschi e meschini per cui Craxi in primis fu favorevole allo stop unilaterale al nucleare. Lo smantellamento delle tre centrali già esistenti, ma ormai vecchie e la riconversione in impianto a carbone, olio combustibile e gas di quella più nuova di Montalto di Castro in Maremma, costituivano delle occasioni di lucro troppo ghiotte. Tanto è vero che il marcio venne scoperto proprio nell'ambito dell'inchiesta di Mani Pulite. Fu proprio in quel periodo infatti che Di Pietro & C. consegnarono a Craxi un'avviso di garanzia in cui il leader del PSI era accusato di aver intascato una tangente di trecento milioni di lire per i lavori di riconversione della centrale nucleare di Montalto di Castro, pagati a nome di una cordata di imprese da Enzo Papi, l'ex amministratore delegato della Cogefar Impresit.

Ora, quando Berlusconi e suoi adepti di nuovo torneranno alla carica con la favoletta dei "verdi oltranzisti che hanno frenato lo sviluppo energetico ed economico del paese" per giustificare il patto scellerato con Sarkozy che, dopo l'accordo Airfrance-Alitalia, ci ha venduto l'ennesima sòla di una tecnologia oltremodo dispendiosa, che produce meno di quello che consuma, ormai vecchia e che tra vent'anni quando entrerà in funzione sarà ormai decrepita, fate loro notare che forse, in materia di nucleare, bisognerebbe dare ascolto a chi, come per esempio il nobel per la fisica Carlo Rubbia, di nucleare se ne intende veramente.

E probabilmente non a chi crede che l'energia nucleare si ricavi "dalla scomposizione delle cellule". Parola del nostro presidente del consiglio.

martedì 24 febbraio 2009

Totò chi si rivede!


Vi eravate dimenticati di lui? Credevate che fosse scomparso dopo tutti i problemi giudiziari in cui è stato coinvolto? Pensavate che se ne stesse quatto quatto tra i banchi del senato nelle file dell'UDC tirando a campare, cercando di non dare troppo nell'occhio e di non farsi riconoscere come l'ex presidente della regione Sicilia condannato a cinque anni di carcere per favoreggiamento alla mafia?

Manco per sogno. Salvatore Cuffaro, per gli amici Totò, dopo la sentenza del 18 gennaio 2008 che lo dichiarava colpevole di favoreggiamento semplice nel processo di primo grado per le "talpe" alla Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo, ha visto la sua carriera impennarsi tutto d'un colpo. In pratica è stato accertato che Cuffaro aveva informato un noto boss mafioso come Giuseppe Guttadauro, collega medico di Miceli, condannato in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa, e un importante imprenditore siciliano nel settore della sanità come Michele Aiello, anch'egli indagato per associazione mafiosa, di notizie riservate, legate alle indagini in corso che li vedeva coinvolti. Ha cercato insomma di tirare fuori dai guai due mafiosi rivelando loro segreti d'ufficio, in particolare mettendoli al corrente di essere sotto intercettazione mediante microspie.

Il procuratore aggiunto Giuseppe Pignatone aveva chiesto per Cuffaro otto anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa e rivelazioni di segreti d'ufficio. Se l'è cavata con un "favoreggiamento semplice", non essendosi potuto dimostrare cosa Cuffaro avrebbe ottenuto in cambio dai mafiosi. Pier Ferdinando Casini, colui che in questi giorni ha annunciato di voler fondare un partito nazionale per l'Italia per rimettere in sesto un intero paese, appena saputo della condanna a soli cinque anni si è congratulato con lui e gli ha proposto un scranno in parlamento. Totò, che per gli amici, si sa, ha un debole, prima ha fatto finta di resistere alle avances, ha brindato e festeggiato la condanna per favoreggiamento semplice con un bel vassoio di cannoli freschi e poi, quando la foto decisamente sconveniente ha fatto il giro del mondo, ha deciso di dimettersi da presidente della regione Sicilia per assurgere ad un compito ben più illustre e prestigioso: senatore della Repubblica Italiana tra le fila dell'Udc.

Come ricompensa per i meriti acquisiti sul campo.

E' stato eletto alle scorse elezioni di aprile. O meglio: Casini l'ha eletto. Come prima cosa, il primo giorno da senatore, è andato a baciare ed abbracciare un caro vecchio amico, Marcello Dell'Utri, che come lui condivide una bella condanna a nove anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Curiosità: entrambi hanno studiato all'istituto dei salesiani "Don Bosco" di Palermo. Stesse radici, stessa pasta. Dopo quel giorno, di lui non si sono avute più notizie. Non ha mai rilasciato dichiarazioni, non si à mai visto in televisione. Probabilmente gli hanno consigliato di far perdere le tracce per un po'. Quel tanto che basta per far sì che gli Italiani con lo riconoscano quando lo incontrano per strada.

Dopo tutto era molto strano e sospetto questo suo astenersi dall'apparire, vista la sua nota indole esplosiva di siciliano verace. Chi non ricorda la storica puntata di Samarcanda, condotta da Michele Santoro in collegamento con il Maurizio Costanzo Show, in cui un ancora sconosciuto Cuffaro prendeva la parola tra il pubblico e attaccava tutto e tutti, si faceva difensore dell'onore della Sicilia, prendeva le parti del pluri-indagato Mannino e infamava addirittura il giudice Giovanni Falcone, presente in studio, scagliandosi contro quella che lui definì "una magistratura che mette a repentaglio e delegittima la classe dirigente siciliana". E come non ricordare la più recente apparizione in tv, sempre nello studio di Santoro, in cui, ostentando con orgoglio una coppola, tentava di discolparsi dalle accuse a lui mosse dal Tribunale di Palermo.

Come mai ora, invece, questo silenzio? Semplice. Totò si stava preparando a tornare sulla scena dalla porta secondaria. Quatto quatto, zitto zitto mirava ad una poltrona succulenta, quella che gli avrebbe permesso di vendicarsi di tanti "torti", di regolare tanti conti in sospeso. Totò Cuffaro mirava ad un posto alla Vigilanza RAI. Chissà quanto ha sofferto in tutti questi mesi, in cui la cocciutaggine di Di Pietro nel non cedere sul nome di Leoluca Orlando ha fatto sì che i vertici di controllo della RAI rimanessero di fatto inoperanti. Ora però che, dopo mesi di farsesche riunioni in cui Villari parlava più o meno a se stesso, la normalità è stata ripristinata con l'elezione del presidente Sergio Zavoli, tutto si è rimesso a posto. La spartizione della torta, o sarebbe meglio dire dei cannoli, è ricominciata senza intoppi. Il Pdl ha piazzato i suoi diciotto uomini in commissione, Veltroni, che da lì a poco sarebbe stato dimissionario, ha trovato il tempo per piazzarne quattordici, la Lega ne ha messi tre, Casini uno: Giampiero D'Alia, presidente dei senatori dell'Udc. Per l'Idv, che si era rifiutata di partecipare alla spartizione, ne sono stati scelti d'ufficio due, direttamente dai presidenti di camera e senato. Questo il 30 gennaio scorso.

Poi, esattamente tre settimane dopo, nel silenzio più generale, Giampiero D'Alia, quello, tanto per intenderci, che vorrebbe chiudere d'un sol colpo Youtube e Facebook, si è defilato. Ha abdicato al proprio ruolo e ha deciso di lasciare il proprio posto in commissione vigilanza RAI ad un altro rappresentante del proprio partito. La notizia non è praticamente passata sulle televisioni. Ne ha parlato solo un articolo sulla Stampa. Per il resto, buio totale.

Questo il comunicato stampa di D'Alia, sobrio e sintetico: "Comunico di aver designato in mia sostituzione come componente in commissione di Vigilanza Rai il collega Salvatore Cuffaro, cui formulo i migliori auguri di buon lavoro".

Eccolo lì, il nostro Totò. Tornato in un sol colpo ai lustri del passato, in sella al massimo organismo di controllo della televisione pubblica. Quella televisione che ha sempre dimostrato di amare, di conoscere e di saper usare per acquisire visibilità e potere. Ora potrà direttamente controllarla dall'alto. Dirigerla. Prendere decisioni su programmi e personaggi. Avremo trasmissioni come Annozero direttamente passate al setaccio da Totò Cuffaro. Non vi sentite tutti più sollevati?

L'ennesimo schiaffo, l'ennesimo insulto alla decenza e all'intelligenza di un popolo rimbambito e dormiente. I cittadini italiani dovrebbero avere il diritto di sapere che la RAI, la televisione di stato, sarà controllata da un personaggio che è stato condannato a cinque anni di galera per aver fatto comunella con dei boss mafiosi. Invece non lo sanno. Perchè nessuno si prende la briga di dirglielo. Meglio dedicare la prima pagina al processo show sul delitto di Garlasco.

Ma sapete cosa fa più ribrezzo. Il fatto che la condanna in primo grado preveda anche l'interdizione assoluta da tutti i pubblici uffici.

Ora qualcuno potrebbe spiegarmi per favore, magari con un bel disegnino e con una buona dose di pazienza, perchè le cariche di senatore della repubblica e di commissario di vigilanza RAI non rientrino tra i pubblici uffici?

Attendo chiarimenti.

sabato 21 febbraio 2009

Il congresso dei morti viventi


Chissà Di Pietro come se la starà ridendo.

Dalla mega riunione tenutasi al padiglione Est della Fiera di Roma con tutta l'elite del Partito Democratico al gran completo che avrebbe dovuto tirar fuori il "nome nuovo", chiesto a gran voce da un elettorato sempre più insofferente e demoralizzato dalla gestione fallimentare di Veltroni, è spuntato niente meno che il nome di Dario Franceschini, ovvero il vice di Veltroni.

Voi direte: non è possibile. E' uno scherzo. Ci stanno prendendo in giro. Invece è tutto vero. Lì sul palco si sono alternati, uno dopo l'altro, tutte le mummie della vecchia classe dirigente. Ognuno a dire la propria, ognuno a spiegare i motivi di una crisi, ognuno a proporre la sua soluzione. Una parata di zombie che, nella perfetta tradizione veltroniana, parlava, parlava, a ruota libera, senza capire a chi si stesse veramente rivolgendo. Il popolo del centrosinistra era stato chiaro: al grido "Tutti a casa!", aveva espresso la sua voglia di tornare subito al voto per eleggere in maniera democratica un nuovo leader, possibilmente un nome sconosciuto, una persona seria di cui potesse avere fiducia e che non fosse incancrenito in odiose logiche di potere, poltrone e poltroncine.

Invece su quel palco ci sono saliti tutti, tranne che facce pulite. Ha iniziato una trombata di lusso, Anna Finocchiaro, che ha aperto i lavori con grande sobrietà. Poi hanno parlato in serie due capi carismatici come Piero Fassino e Rosy Bindi a favore di un'elezione immediata di un nuovo segretario, a cui si sono contrapposti due giovanotti come lo scontroso Arturo Parisi e il sempre presente Gad Lerner, non in qualità di presentatore, ma come sostenitore della candidatura di Bersani. Si chiede: "Perchè Bersani non si candida?". Bersani ovviamente non risponde, ma in cuor suo sa che una candidatura odierna significherebbe bruciarsi la possibilità più che concreta di ereditare la segreteria del partito dopo la prevedibile disfatta alle Europee di giugno. In totale si conteranno cinque interventi a favore e cinque contrari alle primarie. Riprende la parola la Finocchiaro che riceve un bagno di applausi per aver citato il già profondamente rimpianto leader Walter Veltroni.

Piccolo fuori programma. Un gruppetto di autoconvocati protesta con striscioni chiedendo "primarie subito". La Finocchiaro li zittisce infastidita. Ma tra i partecipanti circola da ore il nome più papabile per la successione a Veltroni. Tutti, o quasi tessono le lodi di Dario Franceschini, vedono in lui la persona adatta per poter traghettare il PD oltre lo scoglio delle Europee. Dal palco Franceschini invita Arturo Parisi a candidarsi. Non gli pare bello evidentemente vincere per assenza di avversari. Poi parla di rinnovamento, promette di azzerare il partito ombra, dice di voler creare un "luogo in cui stiano assieme tutti i riformismi". Insomma, sembra di sentire Veltroni. Tale quale. Anzi. Va oltre. Da consumato uomo politico intravede una futura alleanza con l'UDC dei pregiudicati Cuffaro e Cesa come unico appiglio per poter contrastare l'egemonia berlusconiana. Poi conclude in bellezza con un passaggio strappalacrime in cui promette, nel caso venga eletto, di andare a giurare sulla Costituzione davanti al Castello Estense nella sua Ferrara. Un tripudio di applausi.

Sale allora sul palco l'altro candidato, lo sparring partner senza arte parte, che nessuno vuole sentire, ma che deve essere lì per rendere meno farsesca tutta la scena. Metà dell'uditorio se ne va. Parisi parla davanti a quattro gatti. Dice cose dopo tutto sagge. Dice che le dimissioni di Veltroni non hanno aperto una crisi, ma semmai hanno offerto uno spiraglio per risolvere una crisi, che sta erodendo il PD ormai da molto tempo. Dice che non ha senso affidarsi alle stesse persone che hanno trascinato il PD nel pantano. Un'analisi lucida e corretta. Peccato che nessuno gli dia ascolto.

D'Alema, in platea, dice di aver apprezzato il discorso di Franceschini. La Binetti invece si dice indecisa. Cacciari capisce che è tutta una farsa e bolla come "ridicola" una scelta tra quei due candidati. Ci sono centinaia di telecamere. Tutte le televisioni. Tutte quelle che sarebbero dovute essere presenti davanti al Tribunale di Milano per la sentenza del processo Mills. E che invece avevano disertato clamorosamente. Il caos è completo. D'Alema sbuffa: "Come si fa a lavorare così!". Arriva persino il patriota Colaninno. Quello che ha ereditato da Berlusconi la parte sana di Alitalia per un pugno di soldi e che ora chiede al partito di "tirar fuori le palle".

La Finocchiaro taglia corto. Ha fretta di arrivare alla conclusione. Annuncia che il voto inizierà con mezz'ora d'anticipo. Più di mille gli aventi diritto. Alle 15:00 iniziano le operazioni. Si sarebbero dovute concludere verso le 17:00. In realtà tutti sembrano avere un'urgenza irrinunciabile. Dopo solo un'ora si è già praticamente arrivati all'ora della verità. Inizia lo scrutinio. Fin da subito si vede che è un plebiscito. Il nome di Parsi compare più o meno ogni dieci schede a favore di Franceschini. 1047 a 92: un trionfo per il vice di Veltroni.

D'Alema rassicura tutti: "Non ho intenzione di rientrare nel gruppo dirigente". Poi, a microfoni spenti, qualcuno lo sente aggiungere: "...per ora..." Rutelli annuncia il totale appoggio incondizionato all'amico Dario. Bersani battezza il nuovo leader: "E' la persona giusta". Persino Veltroni torna a far sentire la propria voce augurandogli, pacatamente ma serenamente, "buon lavoro". Franceschini, tra lo sconcerto generale, esulta: "Aveva ragione Walter Veltroni! E' tornato l'ottimismo! E questa è la prova che l'unico ad aver capito che cosa bisogna fare è stato Veltroni!"

Dopo qualche attimo di smarrimento in cui qualcuno gli ha fatto notare che Veltroni era quello che si era appena dimesso per manifesta incapacità, Franceschini si è ripreso: "Il mio discorso è stato molto moderato. Ho detto cose democratiche". Quando anche Antonio Bassolino, quello sotto processo per la gestione disastrosa della Campania, annuncia che "Franceschini si è mosso bene", cala il sipario sulla giornata.

Tutti felici e contenti. Il PD è rinato, è ricominciata una nuova era.

Berlusconi si sta scompisciando dalle risate. Di Pietro si sta fregando le mani.

La pagliacciata di oggi rappresenta la pietra tombale sul progetto di un partito unico della sinistra. Un branco di politicanti, espressione più meschina dell'inciucio, dell'affarismo e della spartizione del potere, che si erge a rappresentanza di un elettorato disorientato che chiedeva nient'altro che un taglio netto con la politica fallimentare di Veltroni. Hanno ottenuto, in tutta risposta, una frettolosa ricucitura dello strappo. Via Veltroni, al suo posto il vice. Un uomo addirittura non di sinistra. Un ex democristiano. Qualcosa che non sarà digerito facilmente dalla base. Non si sono accorti che hanno perso completamente il contatto con la realtà. Hanno perso ancora una volta un'occasione preziosa per cambiare rotta. Hanno eseguito alla perfezione ciò che Veltroni nel suo discorso d'addio aveva avvertito di non fare: "cambiare tutto affinché nulla cambi".

E invece credono di poter risollevare un partito puntando sulle stesse identiche persone che quel partito hanno trascinato nel baratro. Stanno scherzando col fuoco. Questa non è miopia. Questo è rimbambimento totale. Alle Europee prenderanno una mazzata talmente forte che rimpiangeranno l'era veltroniana. L'elettorato sta scappando in massa. Loro non se ne sono accorti e suonano il violino mentre la nave affonda.

Alle prossime Europee torneranno prepotentemente indietro tutti i cosiddetti "voti utili". Ci sarà una riaffermazione delle sinistre più estreme. Ci sarà una triplicazione dei voti per Di Pietro. Berlusconi trionferà a mani basse. E Franceschini sarà costretto a scappare come un ladro di notte avverando la profezia del cavaliere: "Dopo il settimo salterà anche l'ottavo".

giovedì 19 febbraio 2009

Il testamento di un visionario


Non ci ha capito niente.

Questo è il primo pensiero che è mi è balenato per la mente mentre riascoltavo il discorso d'addio di Walter Veltroni. Non ci ha mai capito niente, fin dalla nascita del PD, e continua a non capirci niente. A un certo punto lo ha ammesso lui stesso: "C'è qualche cosa di profondo nella società italiana, qualcosa che anche a me diventa difficile capire. Lo dico sinceramente..."

Mi è sembrato, ancora più che mai, l'uomo sbagliato al posto sbagliato.

Un uomo che ha parlato di tutto senza dire niente. Un uomo che non capisci se ci è o ci fa. Ha parlato di grandi ideali, ha citato Obama, ha parlato di un sogno di rinnovamento, ha citato Gramsci, ha parlato di vocazione maggioritaria della sinistra, ha citato Tomasi di Lampedusa, ha parlato di un cambiamento radicale dell'Italia. Sembrava il discorso di insediamento. Invece era quello d'addio.

Lo senti parlare e non capisci se faccia apposta o sia davvero un inguaribile sognatore, un leggiadro idealista trapiantato a forza nella politica italiana, come una ginestra sulle pendici del Vesuvio. Lo senti parlare e ti viene da provare una certa compassione, una forma di pietoso rispetto per un uomo incompreso da tutto e da tutti. Fa quasi tenerezza nella sua ingenuità. Parla con occhi sognanti dell'utopia di "un partito democratico che rappresenta e assume su di il destino dell'Italia, di un paese che prima o poi dovrà conoscere la stagione di un grande cambiamento".

Torna indietro con occhi languidi alla preistoria, al '96, anno in cui, secondo lui, sarebbe dovuto nascere il PD. Invece, con suo grande rammarico, è venuto alla luce solamente 12 anni dopo. Per morire di morte prematura dopo soli 16 mesi. Accusa Berlusconi di aver "occupato il potere per quindici anni", gli rinfaccia di aver stravolto il sistema di valori e di averli sostituiti con i disvalori. Sente profondamente, "mai come oggi, che l'Italia ha bisogno di un cambiamento radicale". Auspica un cambiamento, si augura che l'Italia prima o poi cambi, dice che il paese deve cambiare. Bisogna cambiare, serve un cambiamento, il senso comune deve cambiare. Change, change, change. Ripete questa parola all'infinito, fino all'ossessione. L'ha copiata da Obama e la ripropone in continuazione, forse per convincersi davvero. Fa il paragone con un film d'epoca del '59 per dimostrare che il paese è rimasto uguale, non è mai cambiato, in preda al ricatto delle raccomandazioni e ai privilegi.

E a rimorchio del cambiamento viene il riformismo. Altra parola che ripete fino alla nausea. Ci vuole un paese riformista. Dobbiamo puntare alla maggioranza con riformismo. Ci vuole un grande partito riformista. Se il paese non ha un governo riformista non cambia. Parla di una grande sfida del partito democratico. Ne parla come se stesse iniziando questa sfida e invece questa sfida è già morta.

Verrebbe da alzare la mano e chiedergli: "Ma scusa, Walter...". No, fa niente. Tanto non capirebbe. E' una battaglia persa in partenza. Parla per metafore. Parla di spiegare vele al vento "anche quando il vento è più basso in attesa che il vento diventi favorevole". Verrebbe da dirgli: "Scusa, Walter, ma che c... vuol dire?" No, lasciamo stare. Lui vive in un mondo tutto suo. Dice che si deve intraprendere una battaglia "casamatta per casamatta", che ci si deve riappropriare del paese. Forse non ha capito che la sua battaglia non sta per cominciare, ma è già finita.

Parla come se a capo dell'opposizione, per tutti questi mesi, ci fosse stata un'altra persona. E' incredibile. Dopo un po' che lo ascolti, però, quel senso di affetto verso un persona che pare tanto buona e indifesa viene meno e cominci e domandarti se non ti stia pigliando bellamente per i fondelli. Questo almeno è quello che io ho provato. Una grossa presa per i fondelli.

Non ha detto una parola sulle cause di una disfatta senza precedenti. Ha preso il PD al 33% e l'ha trascinato nel baratro del 24% in pochi mesi. Qualcosa che nemmeno se fosse stato Berlusconi a guidare il centrosinistra sarebbe riuscito a fare. Un crollo totale e senza attenuanti. E lui è lì ancora che parla di idee, che parla di cambiamento, che parla di riformismo, che parla, che parla, che parla, ma non si capisce a chi stia parlando. E' da mesi che parla a se stesso e pochi intimi. Tre quarti del partito non lo ascoltava. La stragrande maggioranza dell'elettorato non lo seguiva. E lui si illudeva di poter far crescere il partito, di farlo rinascere. Più perdeva consensi e più si convinceva che quella era la strada giusta.

Si toglie anche qualche sassolino dalla scarpa. Dice che questa sinistra deve smetterla di essere "salottiera, giustizialista e conservatrice". Una bella stoccata all'alleato più scomodo che esistesse, quello che Veltroni ha odiato più di tutti, più di Berlusconi stesso. Non ha detto una parola su questa ambiguità di fondo, che ha finito con il travolgere il suo partito. In Berlusconi ha sempre visto l'uomo con cui instaurare un dialogo, in Di Pietro l'uomo che, chissà come mai, gli fregava consensi.

Io non credo ad una parola di tutto ciò che ha detto Veltroni. E non ci credo perchè ho sotto gli occhi questi ultimi disgraziati dieci mesi di governo Berlusconi. Non ci credo perchè nemmeno Veltroni crede alle proprie parole. Un uomo che veramente crede alle cose che ha detto nel suo discorso d'addio non si comporta come ha fatto finora.

Sembra essersi accorto solo adesso che "Berlusconi incarna un sistema di disvalori che bisogna contrastare con ogni mezzo". Peccato che, quando vi è stata l'occasione di dimostrare sul campo questo fare battagliero, si sia sempre tirato indietro. Sempre. Quasi spaventato, intimorito, succube di paure insensate. Quando, per tornare alla preistoria, nel '94, proprio Veltorni aveva la possibilità di stroncare sul nascere l'ascesa egemonica di Berlusconi impedendo che entrasse in vigore il decreto con cui Craxi incostituzionalmente concedeva al cavaliere tre reti televisive, si è tirato indietro salvando il suo impero mediatico. Quando si è trattato di scendere in piazza contro lo scempio anticostituzionale del Lodo Alfano, si è tirato indietro. Ha preferito disquisire pacatamente, anzi ha esultato perchè in fondo era riuscito a strappare il Lodo al posto del decreto blocca-processi. L'ha vista come una mezza vittoria, lui. Esattamente il contrario di quello che dovrebbe fare una sinistra "non salottiera" e che va a cercare i consensi "di casamatta in casamatta".

Quando c'è stato da appoggiare il referendum contro il Lodo Alfano, non ha dato nemmeno una mano per raccogliere le firme. Si è tirato indietro, di nuovo. Per paura che il referendum si rivoltasse contro come un boomerang nel caso non si fosse riusciti a racimolare il quorum. Ma come può un grande partito che punta ad avere la maggioranza dei consensi dei riformisti avere paura di sostenere un referendum, che per altro ritiene giusto? Come può fermarsi di fronte ad un prima minuscola sfida? E se no, di che sfide va farneticando Veltroni? Come più pensare di cambiare il senso comune di un intero paese se non riesce nemmeno ad appoggiare una battaglia di legalità per paura di perdere?

Quando c'è stato da sostenere la magistratura, sotto attacco da parte del duo Alfano-CSM, si è tirato indietro. Quando c'è stato da scendere in piazza per sostenere le ragioni dei famigliari delle vittime della mafia si è tirato indietro. Quando c'è stato da battagliare sulla riforma della giustizia si è tirato indietro e ha preferito l'inciucio dello sbarramento al 4% in cambio di un via libera ai vergognosi decreti berlusconiani in materia di intercettazioni. Quando c'è stato da vincere una battaglia di principio sulla vigilanza RAI si è tirato indietro e ha ceduto alle solite logiche di potere. L'unica cosa che Veltroni ha saputo fare in questi dieci mesi è stato tirarsi indietro. Ritirarsi nell'ombra. Non ha caso ha creato un partito ombra. Per non disturbare il manovratore.

Se solo una piccola frazione dell'astio che ha dimostrato di provare nei confronti di Di Pietro l'avesse usata per contrastare in modo concreto l'avanzata di Berlusconi ora forse avrebbe qualche consenso in più e il PD sarebbe ancora vivo.

Si guarda intorno, Veltroni, smarrito, alla ricerca del colpevole. Chiede scusa, dice di non essere riuscito nel suo intento, ma non riesce a capire il perchè. La verità è che non ci ha mai capito niente. Fin dall'inizio. E continua a non capirci niente. Perchè è inutile che si guardi attorno: l'unico responsabile della disfatta è lui. Non c'è D'Alema che tenga. Non c'è Bersani che tenga. Non c'è Rutelli che tenga. Ha fallito in tutto, ma non se ne è ancora accorto. E ha fallito da solo, senza aiuti. Non si è accorto che, paradossalmente, le sue parole di addio sono l'atto d'accusa più grande contro la sua stessa politica. Il suo testamento è la conferma di un fallimento unilaterale di un progetto abortito in partenza.

E le cause del decesso non sono da cercare da nessuna parte.

Basta guardarsi allo specchio.

martedì 17 febbraio 2009

Chi ha corrotto David Mills?


Mentre Walter Veltroni ha portato a termine il suo mandato, cioè quello di disintegrare un'intera opposizione facendola crollare e schiantare clamorosamente sotto la soglia di un imbarazzante 25%, e ora annuncia le dimissioni lasciando un intero partito allo sbando alla vigilia delle elezioni europee, arriva come un fulmine a ciel sereno la notizia che da tempo si stava aspettando.

Ovviamente la stavano aspettando solo coloro che ne erano informati. Perchè tutti gli altri beceri che ora gridano alla politicizzazione delle toghe e denunciano lo scandalo di una magistratura ad orologeria se la sono vista cadere sul collo come se fosse l'ennesima provocazione di un pm malato di protagonismo e di antiberlusconite acuta. In realtà la sentenza di primo grado del processo Mills era da tempo programmata per la giornata di oggi, 17 febbraio 2009.

David Mills era accusato di aver ricevuto 600.000 dollari come compenso per aver testimoniato il falso in due processi a carico del nostro presidente del consiglio Silvio Berlusconi. Mills è un avvocato inglese che, come tutti coloro che conoscono questa losca faccenda sanno, rivelò ingenuamente al proprio commercialista con una lettera di suo pugno di aver ricevuto quei soldi da un certo Mr. B. In quella lettera, a tratti quasi comica, Mills si chiedeva sbalordito come mai Berlusconi, che non era un suo cliente, si fosse spinto a fargli un regalo tanto consistente. E si chiedeva, anzi supponeva che probabilmente era la ricompensa per aver tolto dalle grane Mr. B. in un paio di processi sui fondi neri Fininvest nascosti nei paradisi fiscali esteri. Mills, dopo aver ragionato compuntamente tra e arrivava alla conclusione che doveva essere proprio così, perchè "non c'era altro motivo".

Il commercialista di Mills, trasecolando alla lettura della missiva, decideva di denunciare il suo cliente alla polizia londinese. Da lì nascevano le indagini che porteranno alla perquisizione degli studi dell'avvocato e all'apertura di un procedimento penale a suoi danni per falsa testimonianza. David Mills, interrogato di fronte a quella lettera con la propria calligrafia, confessa di aver ricevuto quei soldi da Berlusconi. Allo stesso tempo, per forza di cose, anche il presunto corruttore Silvio Berlusconi viene inserito nel registro degli indagati per corruzione in atti giudiziari.

Il processo ai due è filato via liscio fino al luglio del 2008. Mills tenta più volte, goffamente, di ritrattare dicendo che quella lettera non conta niente e che la confessione che ha rilasciato era falsa. A sentire lui, era tutto uno scherzo di cattivo gusto. Tira in ballo il nome di un certo Attanasio e lo indica come il presunto corruttore. Dice di aver fatto inizialmente il nome di Mr. B. per coprire Attanasio. Pensate un po': un avvocato londinese, per coprire le malefatte di un suo cliente sconosciuto, accusa di corruzione e inguaia pesantemente il presidente del consiglio di un altro paese. Siamo alla follia. La difesa del duo Mills-Berlusconi ha tentato di dimostrare che quei soldi non fossero partiti dalle casse della Fininvest. L'accusa ha tentato di ricostruire i molteplici movimenti di denaro.

Fino al luglio 2008. Quando Berlusconi, appena eletto, decide di sospendere tutti i processi con pene inferiori ai dieci anni. Perchè? Dice che serve per velocizzare la giustizia e mandare avanti i processi di maggiore allarme sociale. Ovviamente la corruzione in atti giudiziari non rientra fra questi. L'opposizione insorge. Per bloccare il proprio processo Berlusconi non si fa problemi a bloccarne altri centomila. La norma è talmente folle che il suo avvocato parlamentare Niccolò Ghedini corre ai ripari e si inventa un lodo che blocchi d'ufficio i processi di Berlusconi. Alfano, sotto dettatura, mette la firma al Lodo e Berlusconi si ritrova improvvisamente immune di qualunque tipo di processo penale. La norma è palesemente anticostituzionale. Di Pietro & company invadono piazza Navona per protestare. I giornali e le televisioni, invece di sottolineare le denunce all'incostituzionalità del Lodo, preferiscono prendersela con Grillo e la Guzzanti. Veltroni va da Mentana ad annunciare che l'alleanza con il partito populista di Di Pietro è finita.

Intanto Berlusconi è "improcessabile". Il suo fascicolo viene dunque stralciato: il processo a David Mills andrà avanti, quello al presidente del consiglio si ferma, a data da destinarsi. Niccolò Ghedini, appellandosi ad una non ben chiara "osmosi del Lodo", pretende che si blocchi anche il processo a carico di Mills. Lui e il suo assistito sono infatti terrorizzati dal fatto che il processo si concluda presto con una condanna del corrotto David Mills che implicherebbe ovviamente una condanna del corruttore Silvio Berlusconi. Il processo, nonostante i tentativi di farlo saltare e di allungarlo il più possibile, continua spedito per la sua strada. Ghedini ostenta sicurezza: "Anche nel caso in cui Berlusconi fosse stato processato sarebbe uscito sicuramente assolto perchè l'accusa è infondata".

Talmente infondata che oggi, 17 febbraio 2009, la corte ha sentenziato che David Mills ha testimoniato il falso in un paio di processi a carico di Berlusconi ed è stato effettivamente corrotto con 600.00 dollari. Per questo l'ha condannato a 4 anni e sei mesi di reclusione.

Oggi noi sappiamo che siamo governati da un corruttore.

Silvio Berlusconi ha corrotto un avvocato perchè, con la sua falsa testimonianza, lo salvasse da sicura condanna in altri due processi penali.

Quest'uomo è il nostro presidente del consiglio.

Ma sapete qual è la cosa ridicola? Che nessuno può dirlo. Perchè Berlusconi è immune. Il suo processo è fermo e, se mai riprenderà, sarà cancellato dalla prescrizione. Quindi nessuno può dire che Berlusconi è il corruttore di Mills. E infatti: nessuno lo dice!

Leggete i giornali. E' divertentissimo!

Il Corriere ha già spostato la notizia a metà pagina con questo titolo: "Mills fu corrotto: il legale condannato a 4 anni e 6 mesi". E' bellissimo. Dicono che è stato corrotto, ma non dicono da chi! Stanno tentando di arrampicarsi sui vetri per far scemare la notizia. Fanno acrobazie linguistiche, violentano la sintassi della lingua italiana pur di non pronunciare il nome del corruttore. Questo processo passerà alla storia come il primo e unico in cui l'imputato è stato corrotto da un'entità impalpabile, inconsistente, eterea. Anzi: probabilmente si è corrotto da solo.

La Repubblica l'ha addirittura relegato immediatamente a quarta notizia, dietro pure il Festival di San Remo: "A Mills 4 anni e 6 mesi: corruzione da 600 mila dollari". E' incredibile. Il nome di Berlusconi non compare. Mai.

Il Giornale, di spalla: "Caso Mills, condanna a 4 anni e 6 mesi: l'accusa è corruzione".
La Stampa, quarta notizia: "Disse il falso per 600 mila dollari".
Il Riformista, Il Foglio & Libero: la notizia non compare nemmeno.

Stupendo. Questa è la situazione dell'informazione in Italia.

Abbiamo un presidente del consiglio che ha ufficialmente corrotto un testimone in due suoi processi. Siamo governati da un corruttore, nessuno può dirlo e nessuno lo dice.

Oggi, 17 febbraio 2009, ci sarebbe voluto un partito forte d'opposizione che avesse la forza di gridare lo scandalo in cui si trova e galleggiare questo nostro paese. E invece si ritrova solo la voce flebile di Di Pietro, cancellata, censurata e trattata con la compassione che si riserva ad un pazzo. Ci sarebbe voluto un PD che facesse scendere in piazza milioni di cittadini ad urlare che loro un presidente del consiglio corruttore non lo vogliono. Ci sarebbe voluta un'ondata di sdegno che chiedesse immediatamente le dimissioni di Silvio Berlusconi, come avverrebbe in qualunque altro paese democratico. Ci sarebbe voluta un voce potente ed autorevole che mettesse il nostro presidente del consiglio con le spalle al muro e il petto rivolto alle proprie responsabilità.

Ci sarebbe voluto. Perchè invece il PD è a pezzi. Un aborto spontaneo, le cui colpe sono da ricercare in coloro che non hanno mai voluto fare opposizione seria. Hanno sempre preferito l'inciucio, hanno preferito l'elemosina di Berlusconi alla fiducia dell'elettorato. E' da tempo che vado dicendo che l'elettorato del PD non segue più i vertici. E' disorientato. Non capisce più a che gioco stanno giocando (vedi il pizzino di La Torre). Invece di fare un'analisi seria, hanno cercato di dare la colpa a Di Pietro, come se fosse lui il motivo della disgregazione di un coacervo di idee mal messe assieme quale è sempre stato, fin dalla sua nascita, il partito di Veltroni.

Ironia della sorte, anche nel giorno della sua morte, il PD è riuscito a fare un favore immenso a Berlusconi. Ha oscurato d'un sol colpo la sentenza del processo Mills.

Con un'informazione di stampo sudamericano di questo genere e un'opposizione ridotta ad un ammasso informe senza capo coda Berlusconi potrà dormire sonni tranquilli ancora per moltissimi anni a venire.

E sarà libero di corrompere tutti gli avvocati e i giudici che vuole.

sabato 14 febbraio 2009

Il kamikaze

Oreste Dominioni, Presidente dell'Unione delle Camere Penali

La notizia è passata inosservata. Hanno tentato di nasconderla tra le righe. L'hanno riportata, questo sì, perchè dopo tutto non siamo ancora in un regime dittatoriale, ma si sono premurati di farla scomparire al più presto.

Fa quasi tenerezza. Vederli così scatenati e fanfaroni nello strombazzare e dare risalto a ridicole accuse e poi, una volta che queste accuse si dimostrano evidentemente infondate e senza senso, vederli così impacciati, goffi nel tentativo immane di dover riportare una verità, nascondendola.

Parlo ovviamente di come i media hanno trattato l'inconsistente questione del presunto "insulto eversivo" al Capo dello Stato da parte di Antonio Di Pietro. Non era ancora terminata la manifestazione di Piazza Farnese che già le agenzia di stampa, controllate ad arte da menti molto raffinate, spargevano voci incontrollate di un Di Pietro fuori di testa, che aveva osato dare del mafioso a Napolitano. Tutte le televisioni in coro, senza visionare e senza mostrare nemmeno per un momento l'intervento dal leader dell'Idv, per giorni e giorni hanno fatto riecheggiare la favola di un Di Pietro "eversivo", che mina le basi stesse dello Stato, che punta alla strategia del "tanto peggio, meno peggio", che non ha più rispetto di niente e di nulla, che nella sua "foga populista, demagogica, giustizialista" non si fa scrupoli a sparare a zero perfino su colui che dovrebbe essere il custode della nostra repubblica.

Ma le menzogne, anche se grosse, gigantesche e ingigantite, prima o poi crollano. Il problema è che il fine di coloro che spargono menzogne non è quello di impedire che la menzogna venga smascherata (perchè prima o poi ogni menzogna viene smascherata), ma quello di farla durare il più possibile e fare in modo che crei più danni possibili, consapevoli che l'onta procurata in questo modo non sarà mai e poi mai controbilanciata dalla riaffermazione della verità. E' un principio diabolico, ma efficacissimo.

Chi si è fatto principale interprete ed attore dell'ennesima menzogna è un tal Oreste Dominioni, sconosciuto ai più, accidentalmente anche Presidente di un'associazione, denominata Unione delle Camere Penali, organismo che dovrebbe, secondo il suo statuto, vigilare sulla conservazione del principio di libertà, legalità e giustizia in Italia. Un compito nobile, ma decisamente arduo. Dominioni è diventato improvvisamente famoso per aver fatto una cosa che non avrebbe potuto e dovuto fare: denunciare Di Pietro per vilipendio al Capo dello Stato.

Perchè non avrebbe potuto farlo? Semplice. Perchè una denuncia, per definizione stessa di denuncia, serve a far presente ad un'autorità giudiziaria una notizia di reato, che, in mancanza di quella denuncia, rimarrebbe sconosciuto e quindi, potenzialmente, impunito. Ora, l'intervento di Di Pietro a Piazza Farnese è avvenuto in un luogo pubblico, di fronte a qualche migliaio di persone, è stato seguito in diretta da Sky e in streaming di centinaia di migliaia di internauti. Tutte le televisioni ne hanno parlato, tutti i giornali ci hanno scritto e ricamato sopra. E' stata la notizia principale per diversi giorni consecutivi. Bene. Che bisogno c'era di denunciare qualcosa che era noto a tutti? Nessuno, infatti. Se qualche pm di qualche procura d'Italia avesse avuto l'impressione che effettivamente le parole di Di Pietro potessero costituire un reato, non avrebbe avuto altro da fare che andare su Youtube, ascoltarsi i 5 minuti incriminati e iscrivere Di Pietro nel registro degli indagati.

Nessuno l'aveva fatto. Perchè ovviamente nessun pm sano di mente avrebbe seguito una notizia di reato tanto incosistente. Allora ci ha pensato quest'uomo, Oreste Dominioni, a farsi giustizia da solo, apparentemente turbato e profondamente preoccupato della pericolosità delle parole pronunciate da Di Pietro, tanto gravi ed eversive. A questo punto, per atto dovuto, il pm Amato, a cui è stata sottoposta la denuncia, ha dovuto spendere il proprio tempo per cercare di capire se si dovesse procedere legalmente o archiviare il tutto. Un kamikaze, come l'ha definito lo stesso Di Pietro. Espressione che ritengo azzeccatissima, perchè individua perfettamente il senso di questa azione scriteriata. E' chiaro che Dominioni era consapevole fin dall'inizio che la sua denuncia si sarebbe risolta nel nulla. Ma, nonostante ciò, si è lanciato sull'obiettivo, proprio come un kamikaze che si lancia contro un carro armato, senza alcuna possibilità di tornare vincitore. E infatti non è questo l'obiettivo del vero kamikaze. Il kamikaze non agisce per impulso personale, ma su ordine di mandanti esterni. Non cerca la vittoria, ma il maggior danno possibile del nemico.

Ma perchè Dominioni dovrebbe avercela tanto con Di Pietro? Perchè dovrebbe avere dei mandanti? Perchè invece non è semplicemente una persona di saldissimi principi che davvero ritiene, con la propria denuncia, di contribuire alla salvaguardia delle istituzioni democratiche?

Beh, se uno si documenta un pochino, qualche dubbio comincia a venirgli. Chi è in realtà Oreste Dominioni?

Oreste Dominioni è avvocato personale (uno dei tanti) della famiglia Berlusconi. Ha in passato difeso il fratello di Silvio, Paolo Berlusconi, che ha preferito pagare ingenti risarcimenti pur di uscire con un patteggiamento, senza rischi di carcerazione, dal processo per tangenti sulle discariche lombarde: 55 milioni di euro più altri 76 miliardi di lire pagati al fisco per chiudere il contenzioso tributario. Ha poi difeso lo stesso premier Silvio Berlusconi nel processo All Iberian, quello sul falso in bilancio poi depenalizzato dallo stesso Berlusconi. Nel corso di quel processo, Dominioni cercò in tutti i modi di convincere il Tribunale a sottoporsi alla vergognosa legge sulle rogatorie internazionali, appena varata ad hoc dal governo Berlusconi, che di fatto, con dei cavilli burocratici, rendeva nulle le documentazioni fatte pervenire dalla Svizzera che dimostravano movimenti illeciti di denaro.

Ma siccome la famigghia è sempre la famigghia, Dominioni ha pure difeso il compare di Berlusconi, Marcello Dell'Utri, in un processo conclusosi con la condanna in Cassazione per false fatturazioni per un totale di due anni e tre mesi di reclusione con la pena accessoria dell' interdizione dai pubblici uffici. Dominioni cercò fino all'ultimo di imbrogliare le carte consigliando a Dell'Utri di patteggiare e poi di ritrattare. I giudici ritennero però che la richiesta di patteggiamento fosse arrivata troppo tardi e quindi confermarono la loro sentenza di condanna.

Detto questo, risulta fin troppo evidente il perchè Dominioni si sia lanciato in una battaglia persa in partenza e soprattutto chi sia il mandante esterno. Non stupisce dunque sapere che lo stesso si è espresso, durante l'inaugurazione dell'anno giudiziario, a favore della sciagurata legge sulle intercettazioni. Non stupisce di sentirlo parlare con acrimonia di un servitore dello Stato quale è Gioacchino Genchi, il cui fantomatico archivio viene bollato come "cancro in metastasi" (questa storia della metastasi l'ho già sentita...). Non stupisce sentirgli sputare parole di fuoco contro il CSM, reo di aver trasferito De Magistris al Tribunale del Riesame di Napoli, un incarico "troppo delicato" per le sue possibilità (probabilmente avrebbe voluto che lo mandassero a pulire i cessi). Non stupisce infine sentirlo promuovere la riforma della giustizia a firma del ministro Alfano e tuonare contro una magistratura che negli anni "ha acquisito troppo potere nei confronti di una politica troppo debole".

Non so voi, ma sapere che un uomo che ha certe posizioni, con il curriculum professionale che lo contraddistingue, è il Presidente dell'associazione che dovrebbe tutelare la giustizia e la legalità in Italia, mi lascia un tantino turbato. Non troppo, giusto un po'. Non è certo Dominioni il male d'Italia. Dominioni è solamente uno dei tanti personaggi, quelli che Grillo chiama "nani e ballerine", che si aggirano nella corte del sultano, pronti ad obbedire ad ogni cenno del loro padrone. Che credibilità può avere l'ennesimo avvocato della famiglia Berlusconi che si nasconde dietro lo scudo dell'Unione delle Camere Penali per portare avanti una faziosa e vigliacca battaglia politica? Personalmente, nessuna.

Tanto più ora che, per un perverso scherzo del destino, sono stati proprio il suo assistito Silvio Berlusconi e il presidente dei senatori del Pdl Maurizio Gasparri a lanciare accuse pesantissime, queste sì devastanti e al limite dell'eversione, nei confronti sia del Capo dello Stato, accusato esplicitamente di essere il responsabile morale dell'omicidio di Eluana, sia della Costituzione stessa, definita in modo spregiativo, nonostante patetiche quanto prevedibili ritrattazioni, "di ispirazione bolscevica".

Bene, da un uomo tanto integerrimo e dal senso delle istituzioni tanto solido come Dominioni mi sarei aspettato, come minimo, una serie di denunce a raffica, per vilipendio alla Repubblica, nei confronti dei due interessati. Invece, incredibilmente, nemmeno una parola. Era troppo impegnato evidentemente a seguire gli sviluppi delle indagini contro Di Pietro e gli devono essere sfuggite quelle esternazioni. Si rifarà alla prossima.

Ah, dimenticavo. La notizia.

La notizia, oscurata dai media, è che il pm Amato ha chiesto l'archiviazione dell'indagine. Di Pietro, quando parlava di "silenzio mafioso", si riferifa evidentemente a se stesso. Deduzione a cui sarebbe pervenuto chiunque avesse solo provato ad ascoltare per un paio di minuti il discorso di Piazza Farnese. La richiesta di archiviazione ora dovrà essere valutata dal gip.

Ma Dominioni non ha perso tempo ed ha già risposto con un comunicato ufficiale sul sito dell'Unione delle Camere Penali. Grida scandalizzato che la richiesta del pm è "sconcertante" e, prima ancora che il gip si sia pronunciato sulla questione, interviene a gambe unite sullo svolgimento dell'indagine per esternare il proprio disappunto. Sempre, par di capire, in nome della legalità e della libertà della giustizia.

Dominioni avrebbe solo una cosa dignitosa da fare. Presentare immediatamente le proprie dimissioni da Presidente dell'Unione delle Camere Penali, istituzione che ha dimostrato di usare come proprietà privata per condurre, in qualità di prestanome, una codarda lotta politica, chiaramente gestita, a un livello superiore, dal nostro presidente del consiglio.

venerdì 13 febbraio 2009

Hahahahahahaaaaaaaa


"Santoro e il presunto comico Vauro sono due volgari sciacalli che vomitano insulti con le tasche piene di soldi dei cittadini. Gente così offende la verità, alimenta odio e merita solo disprezzo totale della gente perbene. L'insulto è la loro regola. Colpa di gestori della Rai che per fortuna stanno per essere cacciati come meritano".

Maurizio Gasparri, presidente senatori Pdl

giovedì 12 febbraio 2009

La privacy dei delinquenti


Purtroppo per Berlusconi, Eluana è morta.

Il polverone sollevato ad hoc attorno alla vicenda si sta dissolvendo e, nel suo dissolversi, sta rivelando quello che si voleva tenere gelosamente nascosto: gli imbrogli e le norme anticostituzionali contenuti nei disegni di legge in materia di intercettazioni e riforma della giustizia. Norme che non accelereranno di un solo secondo la rapidità dei processi, ma che anzi li rallenteranno e li ingolferanno ancora di più legando le mani ai pm e al loro potere d'indagine.

Cominciamo a parlare del testo riguardante la regolamentazione delle intercettazioni, il ddl 1415. Oggi è scaduto il termine per la presentazioni di eventuali emendamenti, quindi la legge, se verrà approvata, passerà così com'è. Potete leggere il testo completo qui.

La scorsa settimana, durante la trasmissione Annozero, Niccolò Ghedini, parlamentare, avvocato personale di Berlusconi e ideatore de facto della legge, spiegava che questo testo è una sorta di compromesso "giusto ed equilibrato" tra la necessità di usare lo strumento delle intercettazioni senza violare la privacy dei cittadini. Marco Travaglio, in qualità di antagonista, ha messo in luce tutta una serie di incongruenze e di illogicità che condurranno all'impossibilità effettiva di disporre intercettazioni, o comunque ad una loro drastica riduzione. Ghedini ha risposto cercando di confutare ogni punto sollevato dal giornalista, citando, in perfetto stile Azzeccagarbugli, i numeri dei codici, dei codicilli e dei commi, come tanto gli piace fare per confondere l'inerme spettatore, che, di fronte a tanta apparente sapienza giuridica, tende ad arrendersi.

Peccato che, proprio ieri, sia arrivato il no secco del Consiglio Superiore della Magistratura (non del fazioso giornalista di turno che ce l'ha con Berlusconi), che ha spiegato come il testo del ddl sia "pericoloso, irrazionale, problematico, distonico, incongruo, incoerente, eccentrico". Queste parole non le ha pronunciate Marco Travaglio. Le ha pronunciate il massimo organo di controllo della magistratura.

Ma com'è possibile allora che Ghedini si affanni a difendere un testo con gravi lacune di questo genere e che lo consideri perfettamente coerente ed equilibrato? Evidentemente c'è qualcosa che non va. O tutti i procuratori generali di tutte le procure d'Italia che hanno criticato pesantemente il ddl all'inaugurazione dell'anno giudiziario si sono bevuti il cervello o forse, qualche problemuccio esiste davvero.

Il bello della democrazia è che ognuno può leggere il testo della legge e farsi una propria idea in proposito. Non c'è bisogno del Ghedini di turno che tenti di rigirare la frittata, non c'è bisogno del Travaglio di turno che metta in risalto gli imbrogli. E soprattutto non c'è bisogno di essere laureati in legge. Basta avere un minimo di intelligenza, un minimo di coscienza critica e un minimo di onestà intellettuale. Qualità, capisco, che sono sempre più rare.

Leggendo il testo, corredato dei relativi emendamenti, si scoprono le seguenti cose.

1) L'articolo 3 al comma 1 modifica l'articolo 266 del codice di procedura penale specificando il limite di ammissibilità per le intercettazioni, che potranno essere disposte per tutti i reati con pena superiore ai cinque anni di reclusione, più una serie di altri reati minori. Questo emendamento modifica l'idea iniziale, sostenuta fortemente da Berlusconi, di restringere le intercettazioni solo ai reati con pene superiori ai dieci anni.

Dunque cosa cambia rispetto a prima? Apparentemente nulla. In pratica, invece, cambia tutto. Perchè esiste una distinzione fondamentale tra reati con pene superiori ai dieci anni e non. Vediamo come.

2) L'articolo 4 modifica l'articolo 167 del codice di procedura penale e stabilisce al comma a) che per i reati dai 5 ai 10 anni di reclusione "l'autorizzazione è data con decreto motivato, contestuale e non successivamente modificabile o sostituibile, quando vi sono gravi indizi di colpevolezza e l'intercettazione è assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini..."

Le due precisazioni che ho evidenziato in grassetto sono tra di loro incompatibili e rendono di fatto impossibile un decreto di intercettazione da parte del pm per questo tipo di reati "minori". La sussistenza di "gravi indizi di colpevolezza", in termini giuridici, è lo stesso status che permette ai pm di richiedere l'arresto di una persona. Ora, dunque, la legge prevede che io posso intercettare una persona quando già so con ragionevole certezza che essa è colpevole: la posso intercettare in pratica solo quando sono anche in grado di richiederne l'arresto. E' chiaro però che, se ne posso richiedere l'arresto, non è più "assolutamente necessario" intercettarla e l'intercettazione dunque non verrà disposta. Un giochino tanto semplice quanto diabolico che costringerà i pm ad arrampicarsi sui vetri per cercare di dimostrare che sì, loro sono praticamente sicuri che quella persona è colpevole, ma hanno assolutamente bisogno di intercettarla. Auguri.

Non ci vuole Ghedini per capire che questa norma renderà praticamente nullo l'effetto delle intercettazioni, che saranno svuotate di senso e relegate, nel caso improbabile che vengano ancora effettuate, ad un semplice mezzo di conferma di reati già noti. E' necessario anche far notare che per avere "gravi indizi di colpevolezza", i pm probabilmente dovranno avere la palla di vetro o ricevere qualche illuminazione dall'Altissimo, perchè di solito è proprio grazie all'uso delle intercettazioni che si arriva ad avere gravi indizi di colpevolezza. Un paradosso fatto legge.

3) nel comma f) dell'articolo 4 si specifica invece che per i reati di mafia e terrorismo bastano "sufficienti indizi di reato". Cioè la legge rimane esattamente come è stata fino ad ora. Peccato che, se uno ci pensa, il fatto che le intercettazioni per i reati "minori", come spiegato al punto 3, saranno ridotte al lumicino, se non praticamente abolite, farà cadere una scure tagliente pure sulle indagini di mafia e terrorismo. Il punto fondamentale è questo: cosa significa reato di mafia? Significa tutto e niente. Come si fa a riconoscere un reato di mafia? Come si fa a sapere a priori che il trucco di un appalto, l'incendio di un negozio, lo spaccio di stupefacenti ecc. rientrano all'interno di un più complesso disegno criminale di un'intera organizzazione a delinquere? Di nuovo, è chiaro che i pm troveranno notevoli difficoltà a dimostrare che un reato si configura come reato mafioso e questo limiterà ulteriormente il loro potere di indagine.

4) I commi e) e f) dell'articolo 4 chiariscono i limiti di durata delle intercettazioni. Il testo è chiarissimo. Per reati "minori" i tempi sono di 30 giorni, con la possibilità di chiedere una proroga per altri quindici giorni e, al massimo, un'ulteriore proroga per altri 15 per un totale di 60 giorni complessivi, non uno di più. E' chiaro che i 60 giorni possono anche essere non consecutivi e distribuiti lungo l'arco di tutta l'indagine, ma che senso ha indagare per un anno potendo intercettare solo al giovedì? Dice: è per rispettare la privacy. Certo: se ti intercetto per 60 giorni la tua privacy è salva. Follia: o la privacy la si rispetta o non la si rispetta. Non si può violare un po'. O è violata o non è violata. E se è già stata violata per ben 60 giorni che senso ha fermarsi proprio in nome della privacy? E che senso ha tutelare la privacy di una persona su cui pendono gravi inidizi di colpevolezza? E' questa la privacy di cui parlano? La privacy dei delinquenti? E non c'è Ghedini che tenga. Il testo parla chiaro: 60 giorni e non oltre. Nessuna proroga possibile.

Proroga invece possibile per reati di mafia e terrorismo: ad libitum. Peccato che le proroghe siano di 20 giorni in 20 giorni. Cioè ogni 3 settimane si dovrà fare una nuova richiesta di intercettazioni. Questo ingolferà completamente l'attività investigativa e la paralizzerà. Vediamo perchè.

5) Sempre il comma a) dell'articolo 4 stabilisce infatti che "il pm richiede l'autorizzazione a disporre le intercettazioni al tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente, che decide in composizione collegiale. Il pubblico ministero, insieme alla richiesta di autorizzazione, trasmette al giudice il fascicolo con tutti gli atti di indagine fino a quel momento compiuti".

Immaginatevi il delirio. Ogni qual volta che deve essere richiesta un'intercettazione il pm deve spedire tutto il fascicolo dell'indagine al tribunale del capoluogo. Per i reati di mafia, dunque, un camioncino contenente tutti i faldoni dovrà fare la spola tra capoluogo e tribunale d'indagine ogni tre settimane in uno schizofrenico andare e venire. E ogni tre settimane un collegio di tre magistrati esterni deve deliberare se concedere la proroga o meno. Con la penuria di personale e la mancanza di fondi e mezzi denunciata dai procuratori generali di tutta Italia immaginatevi voi che cosa ne verrà fuori. Senza contare che, ogni volta che il collegio giudicante si pronuncia sulla concessione delle intercettazioni, diventa automaticamente incompatibile con un futuro giudizio sul procedimento penale. Si capisce che ci vorrebbe il decuplo dei magistrati che esistono in Italia. Ma siccome non ci sono, le indagini e i processi al seguito si arresteranno e non arriveranno mai a sentenza.

6) L'articolo 3 al comma 2 regola le cosiddette intercettazioni ambientali, quelle ottenute tramite l'uso di cimici e microspie e specifica che sono consentite solo "solo se vi è fondato motivo di ritenere che nei luoghi ove è disposta si stia svolgendo l'attività criminosa". Quindi non si potranno più porre microspie nei bar, nelle abitazioni, sulle auto ecc... se non a meno di dimostrare di essere sicuri che in quel bar, in quell'abitazione, in quell'auto si svolgerà un'attività criminale. Di nuovo auguri.

7) l'articolo 4 al comma b) specifica che, nei procedimenti contro ignoti, le intercettazioni possono essere fatto solo su richiesta della persona offesa. Questo significa che, per esempio, durante un sequestro, la polizia non potrà mettere sotto controllo i telefoni di tutti i famigliari, degli amici, dei colleghi ecc.. come si faceva prima per cercare di trovare un indizio, se non su espressa richiesta della famiglia del sequestrato. Oppure: la vittima di un'intimidazione dovrà spontaneamente richiedere alla polizia che vengano disposte le intercettazioni. Così, il mafioso di turno, quando verrà arrestato, saprà benissimo con chi prendersela. Una disposizione che contrasta palesemente con la lotta all'omertà e che non protegge adeguatamente il cittadino che decide di denunciare i propri estorsori.

8) l'articolo 7 modifica l'articolo 270 del codice di procedura penale e prevede che "i risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali le intercettazioni sono state disposte". Una norma senza senso che Ghedini ha definito "di garanzia". Bisognerebbe chiedergli "di garanzia per chi?". Probabilmente per il delinquente che, beccato a parlare di un proprio delitto in un'intercettazione disposta per altri motivi, avrà la certezza di farla franca. Un classico esempio di "garantismo dell'impunità".

9) l'articolo 2 invece stabilisce che "è vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto o del relativo contenuto, di atti di indagine preliminare, nonché di quanto acquisito al fascicolo del pubblico ministero o del difensore, anche se non sussiste più il segreto, fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell'udienza preliminare". Vi ricordate tutte le manfrine sul fatto che non si debbano dare in pasto alla stampa intercettazioni coperte da segreto? Bene, qui hanno deciso che proprio non si potrà più parlare di un'indagine nemmeno se non è più segreta! Norma palesemente anticostituzionale che contrasta con la libertà di cronaca e di stampa.

Vi sembra tutto un paradosso? No, è semplicemente la legge. più, meno.

Io invidio tanto i sostenitori di Berlusconi che vogliono credere che tutto questo sia fatto per tutelare la loro privacy.

Inguaribili ottimisti.