giovedì 30 luglio 2009

Il senso delle parole


Questa storia sta assumendo contorni sempre più grotteschi. Parlo dell'affaire Mancino e di tutta quella ridda di dichiarazioni, smentite, aperture, indietreggiamenti, rivelazioni, ritrattazioni, ricordi, dimenticanze, verità (poche), bugie (tante), quei non so, non sapevo, non potevo sapere e anche se avessi saputo non ricordo. Qualcosa che puzza tremendamente di marcio e che vorrei provare a ricostruire dati alla mano. Sono due le questioni che agitano i sonni del vicepresidente del Csm. La presunta trattativa tra stato e mafia e quell'ormai famigerato incontro fantasma con Paolo Borsellino il 1 luglio 1992.

Partiamo dalla trattativa. Tutto nasce dalle dichiarazioni che il figlio di Vito Ciancimino sta rilasciando da mesi ai magistrati inquirenti. Massimo Ciancimino ha rivelato che il padre fu avvicinato da esponenti di Cosa Nostra per conto di Totò Riina che voleva far pervenire ai piani più alti delle Istituzioni le sue richieste indecenti, vergate di proprio pugno sul famoso "papello". Vito Ciancimino a quel tempo aveva intrapreso delle relazioni delicate con le forze dell'ordine, che volevano a tutti i costi arrivare, grazie alle sue conoscenze, alla cattura di qualche pezzo grosso di Cosa Nostra. In particolare, erano stati il colonnello Mario Mori e il tenente Giuseppe De Donno ad avviare i primi contatti col sindaco mafioso di Palermo. Questo è stato ormai accertato. Il punto è che Massimo Ciancimino rivela per la prima volta che Riina non si accontentava di questi contatti. Voleva avere l'assicurazione che i piani alti delle istituzioni fossero a conoscenza della trattativa e in qualche modo la legittimassero. Massimo Ciancimino fa il nome di Nicola Mancino, allora ministro dell'Interno, che avrebbe dato l'ok per trattare con Cosa Nostra.

Come si difende Mancino da queste accuse?

La sua prima dichiarazione è di rifiuto assoluto: "Escludo in maniera netta e categorica che lo Stato abbia trattato con esponenti della mafia: nessuno dei vertici delle forze di polizia me ne parlò, né chiese il mio parere, che sarebbe stato decisamente negativo sull'apertura di una trattativa con la malavita organizzata. Ignoro le assunte trattative che comunque avrei fermamente osteggiato, tra gli uomini del Ros e il signor Ciancimino rese a far accantonare da parte della mafia l'offensiva contro lo Stato".

A ben vedere, sono dichiarazioni ambigue, contraddittorie. Come può escludere che ci sia stata una trattativa tra Ros e Cosa Nostra (verità processualmente accertata) se mai nessuno degli interessati gliene parlò? Se "esclude", significa che è sicuro che nessun apparato dello Stato trattò con i mafiosi. Come fa a esserne certo? Soprattutto alla luce di quanto è emerso nei vari processi celebratisi sulle stragi. In proposito, voglio riportare due brani inquietanti, tratti dalle deposizioni di due pentiti, Giovanni Brusca e Calogero Pulci.

Brusca: "Io capisco che quella trattativa...cioe', quella strage del dottor Borsellino e' per me per due motivi: una e' per accelerare, due, che il dottor Borsellino poteva essere l'ostacolo, quello che poteva non garantire quelle trattative che erano state richieste e, quindi, un elemento di ostacolo...un elemento di ostacolo da togliere di mezzo a tutti i costi, visto che non era abbordabile con la corruzione o con qualche altro sistema. Perchè allora si parlava del dottor Borsellino che doveva andare qua, doveva andare la', doveva fare questo, pero' era la persona che poi, piu' di tutti, togliendo gli incarichi istituzionali che avrebbe potuto avere, ma era la persona che denunciava pubblicamente fatti e misfatti, quindi, era un ostacolo a tutti i livelli. Quindi per me i motivi sono due: uno, che Cosa nostra lo doveva eliminare necessariamente, l'accelerazione per spingere a questa trattativa, e due, che poteva essere un ostacolo per continuare questa trattativa.

Pulci: "Le due stragi furono decise contemporaneamente, ma si dovevano fare in date separate. Solo che quella del dottor Borsellino fu accelerata per una imprudenza del dottor Borsellino, in quanto dopo la strage di Capaci si confidò con un uomo delle Istituzioni a Roma, con l'uomo direi io sbagliato, che quello ci avverti' e accelerammo la...Io non lo so il contenuto, ma questo si confido' al punto tale da fare spaventare quella persona delle Istituzioni da farci accelerare la strage. Fummo avvisati per fare la strage, perche' la strage e' diventata dopo, si doveva ammazzare il dottore Borsellino, come si doveva ammazzare il dottore Falcone, perche' collegati sono".

Queste parole di Calogero Pulci suonano ancora più sinistre se si pensa che proprio oggi è trapelata la notizia per cui due magistrati, ex giovani colleghi di Borsellino, hanno dichiarato qualche giorno fa alla procura di Caltanissetta: "Un giorno di quell'estate siamo andati a trovare Paolo nel suo ufficio a Palermo, era stravolto. Si è alzato dalla sedia, si è disteso sul divano, si è coperto il volto con le mani ed è scoppiato a piangere. Era distrutto e ripeteva: "Un amico mi ha tradito, un amico mi ha tradito"". Questo amico di cui parlano questi due (ancora anonimi) magistrati ha qualche cosa a che fare con l'uomo delle Istituzioni che secondo Pulci avrebbe tradito Borsellino? Mancino ha qualche sospetto in proposito? O, alla luce di tutto ciò, ha ancora il coraggio di dichiarare di non aver saputo nulla della trattativa e dei ricatti incrociati che avvenivano sotto il suo naso?

E infatti Mancino un piccolo passo avanti lo fa e adombra l'ipotesi che la trattativa ci sia effettivamente stata: "Noi la trattativa l'abbiamo sempre respinta. L'abbiamo respinta anche come semplice ipotesi di alleggerimento dello scontro con lo Stato portato avanti dalla mafia." E' chiaro che se la trattativa è stata respinta, significa che qualcuno l'ha proposta e intavolata. E poi quel plurale, "noi". A chi si riferisce Mancino? Sta parlando anche per i vertici del Ros, che come sappiamo erano tutt'altro che allergici ad una trattativa, o è un semplice plurale maiestatis?

Passa qualche giorno e il piccolo passo avanti, evidentemente troppo azzardato, è subito rimangiato. In un'intervista al Corriere Mancino dichiara: "Per quanto mi riguarda non ci fu, né ci furono trattative. Parlo naturalmente di dopo il mio arrivo al Viminale: nessuno ha mai proposto, a me e allo Stato nei suoi vertici istituzionali, impossibili trattative con la mafia". L'arguto giornalista gli fa notare: "Ma allora cosa avete respinto?". Mancino si arrotola su se stesso: "Mi riferivo al fatto che, a partire dal capo della polizia fino ai direttori dei Servizi, quando qualcuno avanzò l’ipotesi che la mafia aveva alzato il tiro contro le istituzioni per ottenere un’attenuazione dei provvedimenti di contrasto già assunti dal governo o ancora all’esame del Parlamento, questa eventualità fu immediatamente scartata".

Dunque quando Mancino parla di "trattativa respinta" intende l'ipotesi di un fantomatico "qualcuno", secondo cui le bombe di Cosa Nostra dovevano servire a far venire a patti lo Stato. Questo "qualcuno" deve essere stato davvero un genio dall'intelligenza spiccata e fuori dalla norma per aver intuito un così sottile piano diabolico. Evidentemente nessuno al Ministero dell'Interno ci era ancora arrivato. Però una cosa è certa. Quando questo "qualcuno" glielo spiegò per filo e per segno, magari con un bel disegnino, loro (chiunque fossero questi "loro") si opposero fermamente.

Veniamo ora alla questione dell'incontro con Paolo Borsellino. Mancino fu interrogato come teste dai magistrati di Caltanissetta nel lontano 1998 e a loro riferì di non potersi ricordare dell'accaduto. Oggi, a undici anni di distanza, conferma quelle parole: "
Confermo di non averne memoria: non conoscevo fisicamente quel magistrato, ma non ho escluso che fra le tante strette di mano per congratularsi con me ci potesse essere anche quella del giudice Borsellino. Nessuno me lo presentò, neppure il capo della Polizia Parisi, che pure, nel pomeriggio di quel giorno, mi aveva chiesto se avessi avuto nulla in contrario a che il dott. Borsellino mi venisse a salutare. Ma perchè poi incontrare il Giudice Borsellino in una giornata in cui si festeggiava la mia nomina a Ministro dell'interno?".

E' credibile che un senatore della Repubblica Italiana, quale era Mancino a quei tempi, designato a succedere al Ministro Scotti al Viminale, scelto dunque per la sua esperienza in termini di conoscenza del fenomeno mafioso, non sapesse che faccia avesse Paolo Borsellino? Il giudice che riempiva le prime pagine di tutti i giornali dopo la morte di Falcone. Il giudice che rilasciava interviste, parlava alle televisioni, interveniva ad incontri pubblici. Il giudice considerato da tutta l'opinione pubblica come l'ultimo baluardo della lotta alla mafia. Il giudice che prese addirittura sei voti durante l'elezione del Capo dello Stato. Il giudice che portava a spalle la bara del suo amico e collega davanti a tutte le televisioni del mondo. E' credibile tutto ciò? E' credibile che un uomo navigato come Mancino e così esperto delle faccende italiane e che, come lui ama rimarcare, aveva firmato la legge Violante-Mancino per impedire la scarcerazione degli imputati del maxiprocesso, non avesse mai visto, nemmeno di sfuggita, in tutti quegli anni di lotta alla mafia colui che, insieme a Falcone, il maxiprocesso l'aveva istruito?

E' credibile che Paolo Borsellino fosse stato invitato al Viminale da Parisi senza che nessuno lo presentasse al ministro? E' credibile che Mancino possa aver stretto la mano a Paolo Borsellino senza che questi si presentasse? E soprattutto senza che il volto di Paolo gli rimanesse impresso nella mente? Non sarebbe dovuto essere lui, Mancino, il primo a chiedere della possibile presenza di Borsellino al Viminale e fare di tutto per farselo presentare? Non era Mancino ansioso di conoscere il magistrato che più di tutti poteva aiutare lo Stato a sconfiggere Cosa Nostra in quel periodo assolutamente tragico della storia della Repubblica? Non era ansioso di conoscere il magistrato che Cosa Nostra aveva già condannato a morte e che aveva dichiarato di aver capito perchè e da chi Falcone fosse stato ucciso? Oppure era troppo impegnato, a quanto pare, ad autocelebrarsi e a festeggiare il proprio insediamento al Viminale? E cosa c'era, di grazia, da festeggiare in quei terribili giorni in cui lo Stato pareva sull'orlo di crollare sotto gli attacchi eversivi della mafia?

Mancino dichiara: "Nella mia agenda, anno 1992, primo luglio, non è annotato nessun incontro e non potevano esserci incontri prestabiliti: salivo la prima volta al Viminale e una folla tra prefetti, funzionari, impiegati, amici riempì il corridoio dal quale si accede all'ufficio del ministro". Ma chi ha detto che quello fosse un incontro prestabilito? Anzi. Quell'incontro sappiamo bene che fu qualcosa di assolutamente non pianificato. Dunque, se nelle agende il ministro è solito segnare solamente gli incontri prestabiliti e non quelli effettivamente avvenuti (anche improvvisi o casuali), è chiaro che il fatto che al primo luglio non ci sia scritto niente non dimostra nulla. Mancino infatti, in un'intervista per La7, ha mostrato un calendarietto, tirato fuori da un cassetto chiuso a chiave del suo studio, mostrato per qualche secondo alle telecamere e poi subito rimesso al proprio posto.

In proposito Mancino pronuncia la dichiarazione più sconcertante: "
Ma non potevo dare un appuntamento a uno che non conoscevo! A meno che quello che non conoscevo non mi avesse detto ci ho un segreto di Stato...ci ho una mia valutazione urgentissima...allora io a quel punto .. perchè non riceverlo ... ricevo tutti!". Ma come? Allora Mancino sta dicendo che non solo non conosceva fisicamente Borsellino, ma ignorava addirittura chi fosse. Forse che aveva bisogno di conoscerlo fisicamente per convocare al Viminale il giudice antimafia più famoso d'Italia? Tutto ciò è ridicolo. Ridicolo e offensivo per la memoria del giudice. Offensive sono quelle parole ("ricevo tutti!"), come se Paolo fosse un funzionario qualunque giunto al Viminale solo per omaggiare sua maestà il neoministro.

Continua Mancino: "
Ma si può parlare con un ministro neo nominato di trattative tra lo Stato e la criminalità organizzata? ... a parte ragioni di stile ... in quei giorni ...a meno che non ci fosse stata una richiesta esplicita per notizie di carattere urgente ... io non ho ricevuto nessuno e non avrei voluto ricevere nessuno ... come in effetti mi pare che sia avvenuto". Notate la spudoratezza di certe dichiarazioni. Ma che faccia tosta avrebbe avuto Paolo Borsellino a venire a rovinare la festa del ministro? Era il caso di parlargli di trattative tra stato e mafia proprio mentre lui stappava spumante e mangiava cannoli per l'importante poltrona ottenuta? Sarebbe stato davvero sfacciato questo Borsellino. E che diamine. Nemmeno un briciolo di stile!

E per difendersi, Mancino cita addirittura la deposizione del pentito Gaspare Mutolo che dimostrerebbe come l'incontro non sia avvenuto. Anzi accusa Salvatore Borsellino di raccontare sempre "una versione monca" della vicenda. Per dovere di verità riporto dunque qui di seguito lo stralcio delle dichiarazioni di Mutolo che dovrebbero "scagionare" Mancino.

Mutolo: "Quando il Giudice ando' via mi aveva detto che gli aveva telefonato il ministro. Quindi, quando il Giudice ritorno', che era passata un'ora, un'ora e mezza, ci siamo entrati di nuovo nella stanza, pero' l'umore del dottor Borsellino era completamente cambiato, perche' diciamo, quando incomincio' l'interrogazione era molto soddisfatto e si vedeva che era contento che io ero iniziato la mia collaborazione; invece quando ritorno' era molto agitato, tanto che io, ad un certo punto, notai questo, perche' lui si era tolto la giacca, sudato. Ad un certo punto io mi accorgo che il dottor Borsellino c'ha una sigaretta accesa e se ne accende un'altra, quindi da quel momento io ho capito che era molto distratto. Anche se era con me, ma il pensiero era ad un'altra persona. Dopo c'ho detto - a tipo una battuta - che deve essere contento che e' andato dal ministro. Dice: "Ma quale ministro e ministro...sono andato dal dottor Parisi e dal dottor Contrada", quindi ho capito,che con quello che avevo detto io qualche ora prima, qualche due ore prima, insomma, il discorso era molto preoccupante. Comunque, ma me l'ha detto molto seccato, molto dispiaciuto, con fare stanco. Ma si vedeva chiaramente che la cosa non era gradita, diciamo; era stata una sorpresa che lui magari o non si aspettava o... Io non lo so, io non e' che posso essere nella mente del Giudice, quello che pensava lui in quel momento. Cioe', pero' era completamente diverso di come era andato, di come quando ritornò".

Se, come dice Mancino, questo resoconto è da prendere come buono si evince che:

1) il ministro Mancino ha chiamato personalmente Borsellino sul cellulare per convocarlo d'urgenza al Viminale.

2) quando Borsellino giunge al Viminale, invece che dal ministro, viene accolto dall'allora capo della Polizia Parisi (deceduto qualche anno fa) e dall'ex numero tre del Sisde Bruno Contrada, oggi condannato in via definitiva a dieci anni per mafia.


3) Borsellino ne rimane sconvolto, perchè Contrada era proprio colui che Mutolo gli aveva indicato come "a disposizione" di Cosa Nostra. Non solo: durante quel colloquio, rivela ancora Mutolo in un altro passaggio, Contrada mostra di essere già a conoscenza del fatto che Mutolo vuole collaborare e anzi si "mette a disposizione" di Paolo Borsellino. Questa è la cosa che inquieta di più il giudice, che non si fida assolutamente di Contrada.

Ora io chiedo a Mancino: in che modo questa ricostruzione potrebbe scagionarlo? Non si accorge che questa versione invece lo sbugiarda completamente? Come faceva ad avere il numero di cellulare di una persona che non conosceva? L'ha forse chiamato per sbaglio credendo che fosse qualcun altro? E cosa ci faceva Contrada (un uomo che, secondo Paolo Borsellino, al solo pronunciarne il nome si poteva morire) negli uffici del Viminale? E Mancino, che tanto ama far parlare (o tacere, a seconda dei casi) i morti, si ricorda almeno che nei suoi uffici si aggirava il numero tre del Sisde? O nemmeno lui sapeva che faccia avesse?

Ma la cosa più grottesca sono gli ultimi sviluppi della vicenda. Improvvisamente, dopo tanti anni, c'è gente che inizia a ricordare e a dare la propria versione dei fatti. Nel post precedente ho citato Giuseppe Ayala che, con una intervista dirompente, affermava con assoluta certezza: "
Io ho parlato personalmente con Nicola Mancino e Mancino mi ha detto che ha avuto l'incontro con Borsellino, del tutto casuale, il giorno in cui Mancino andò per la prima volta al Viminale a prendere possesso della sua carica di ministro. No, no! Lui ha detto che lo ha avuto questo incontro! Come no? L'ha detto anche a me! Mi ha fatto vedere addirittura...forse svelo una cosa privata, ma insomma...mi ha fatto vedere l'agenda con l'annotazione...perchè lui è di quelli che ha le agende conservate con tutte le annotazioni. "

In un colpo solo Ayala distrugge il castello di carta eretto da Mancino in propria difesa. Ayala svela che, in un colloquio privato di qualche mese fa, Mancino ha ricordato perfettamente di aver incontrato Borsellino e per di più gli ha mostrato un'agenda con una annotazione a conferma dell'avvenuto incontro. Evidentemente deve essere un'agenda diversa da quella che Mancino ha mostrato alle telecamere. Non passa nemmeno un giorno che spunta un altro partecipante al medesimo colloquio privato. Si tratta di Mario Fresa, consigliere del Csm, e quindi in stretti rapporti con Mancino, che sbugiarda Ayala: "
Non è vero che Mancino raccontò di aver avuto un incontro con Borsellino il giorno del suo insediamento al Viminale. Piuttosto disse di non poter escludere di aver stretto anche le mani del procuratore di Marsala, che per altro non conosceva, tra le migliaia di quel giorno. Mancino ci disse di non aver avuto nessun appuntamento quel giorno con Borsellino e ci mostrò anche la pagina bianca della sua agenda alla data del primo luglio 1992".

Sconcertante. Come è possibile che due persone che hanno partecipato al medesimo colloquio riportino fatti completamente opposti? Cosa ha detto veramente Mancino? Cosa c'era scritto veramente su quella agenda?

Non passa nemmeno un giorno che Ayala, con una lettera ufficiale, ritratta la propria versione: "
Confermo di aver avuto modo di visionare la pagina relativa alla data del 1 luglio 1992 dell'agenda del presidente Mancino nel corso di un colloquio svoltosi qualche tempo fa nel suo ufficio a Palazzo dei Marescialli. Per chiarire un probabile equivoco, desidero chiarire che nella pagina dell'agenda di cui sopra non risulta annotato il nome di Paolo Borsellino. E', cioè, proprio l'assenza di tale annotazione che, a dire del Presidente Mancino, conferma che tra i due non vi fu alcun incontro".

Ma come? Possibile che tutti abbiano frainteso? Eppure, a riascoltare l'intervista rilasciata da Ayala, non sembra ci sia spazio per interpretazioni. E' possibile che una persona un giorno ricordi una cosa e il giorno dopo l'esatto contrario? E' possibile che una frase un giorno voglia dire una cosa e il giorno dopo l'esatto contrario? Ma Ayala è cosciente di quanto delicate siano certe dichiarazioni? Ha il senso dell'importanza di calibrare le parole? Ma Ayala ci è o ci fa? Perchè ha ritrattato in fretta e furia? E' stato folgorato sulla via di Damasco? Ha subito dalle pressioni da qualcuno?

No, perchè in questo periodo stiamo assistendo a cose inaudite. E' di oggi la notizia ufficiale che il processo Borsellino è da rifare. Il pentito Vincenzo Scarantino, mezzo analfabeta, sulle cui contraddittorie dichiarazioni (ritrattò e poi ritrattò la ritrattazione) erano stati basati tre processi penali ed erano stati inflitti decine di ergastoli, ora si scopre che fu "indirizzato" nelle sue confessioni. Da chi? Da alcuni membri del comando Falcone-Borsellino, che a quel tempo indagavano sulle stragi. E che a quanto pare verranno inquisiti per depistaggio. La mano lunga dei servizi segreti che depista e imbocca falsi pentiti per creare una falsa verità. A che pro? E per conto di chi? Da brivido. Persino la madre di Scarantino oggi conferma: "Su mio figlio sono state fatte pressioni". A Scarantino non credette fin dal primo minuto Ilda Boccassini che per questo lasciò la procura di Caltanissetta. A Scarantino non credette fin dal primo minuto Gioacchino Genchi che capì immediatamente come un personaggio del genere non avrebbe potuto essere per nulla credibile. A Scarantino invece credette incondizionatamente l'allora procuratore di Caltanissetta, Giovanni Tinebra, detto Tenebra. Lo stesso che impose al giudice Luca Tescaroli (contro il suo parere) l'archiviazione delle indagini sui mandanti esterni a carico di alpha e beta (Dell'Utri e Berlusconi), salvo poi diventare l'anno successivo il presidente del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria su chiamata proprio di Berlusconi.

Volete sapere l'ultima? Con tutta probabilità il nuovo processo Borsellino si svolgerà a Catania. E sapete chi è oggi procuratore capo a Catania? Giovanni Tinebra.

Chi sarà il prossimo a ritrattare?

venerdì 24 luglio 2009

Uomini in stato confusionale



La Seconda Repubblica è agli sgoccioli. Si vedono le crepe, si sentono gli scricchiolii. Per coloro che vogliono vedere e sentire, si intende. Le indagini riaperte dalle procure di Milano, Firenze, Caltanissetta e Palermo sulle stragi del '92-'93 avranno la stessa portata devastante dell'inchiesta di Mani Pulite, che mise fine alla Prima Repubblica.

In televisione non trapela ancora nulla. Gli Italiani se ne stanno per andare al mare, se non ci sono già, e la Cesara Buonamici dagli studi di Canale5 tenta di sedarli raccontando loro del caldo torrido, dell'ultimo caso di cronaca nera e delle vacanze dei vip. Sotto sotto, la gente che conta trema. Sono per ora ancora movimenti sotterranei, poco visibili. Segugi che fiutano il pericolo imminente e si preparano al peggio. C'è chi già si sta riorganizzando, crollano vecchie alleanze, si instaurano nuovi legami. Per conferma, chiedere a Lombardo, Dell'Utri e Miccichè, alle prese col neonato partito del Sud. Sono segnali, piccole scosse telluriche, premonitrici del terremoto imminente.

Osserviamoli. Riina ha parlato. Ha parlato dopo sedici anni di sostanziale silenzio. E l'ha fatto il giorno del diciassettesimo anniversario della strage di via D'Amelio. Ha lanciato un messaggio chiaro, anzi chiarissimo. Chi voleva intendere, ha capito perfettamente. Quella frase ("L'hanno ammazzato loro") ha insinuato il panico. Lungi dal voler essere un modo maldestro per scaricare le proprie colpe su altri (come è stato ingenuamente interpretato da molti, in primis il nostro presidente Napolitano), quel messaggio è un avvertimento ben preciso: se inizio a parlare vi distruggo, quindi cercate di venire incontro agli interessi di Cosa Nostra.

Se Riina inizia a parlare, salta tutto. Come minimo, mezzo stato democratico crolla. Se Riina inizia a parlare, saltano politici, magistrati, forze dell'ordine. Saltano Berlusconi e Dell'Utri (ma per davvero questa volta), esplode il Pdl, salta Andreotti dagli scranni del senato, salta Mancino dagli scranni del Csm, salta Carnevale con mezza Corte di Cassazione, saltano Gelli e i suoi seguaci sparsi nelle istituzioni, a destra come a sinistra. Ed è notizia di oggi che i magistrati di Caltanissetta sono saliti al nord ad interrogare Riina. Tre ore di domande incalzanti. Non trapela ancora nulla. Secondo prime indiscrezione il capo dei capi avrebbe dichiarato che per la strage di Via D'Amelio ci sono innocenti in galera e colpevoli in libertà. Ma questo dice poco e niente. Bisogna attendere.

Intanto, ieri, Luciano Violante si è consegnato spontaneamente ai magistrati di Palermo. Ha detto che aveva qualcosa da riferire. Una cosina così, da poco. Che gli è venuta in mente giusto l'altra notte, mentre faceva fatica ad addormentarsi. Gli è venuto in mente che un bel giorno di diciassette anni fa, settembre 1992, l'allora colonnello (poi divenuto generale) Mario Mori lo contattò in qualità di Presidente della Commissione Antimafia (era appena stato eletto) per una richiesta inedita. Vito Ciancimino, sindaco mafioso di Palermo legato al clan dei corleonesi di Totò Riina, aveva richiesto espressamente di poter incontrare Violante a tu per tu. Per fare cosa? Evidentemente per metterlo al corrente della trattativa in corso e delle richieste di Cosa Nostra. Violante afferma di aver risposto picche: o un incontro ufficiale in Commissione o niente. Niente incontri privati.

Ma perchè Violante se ne è uscito solo ora con questa rivelazione? C'è già stato nel 2005, ed è terminato con una discutibile assoluzione, un processo a carico del generale Mori e del capitano Sergio De Caprio (il leggendario Capitano Ultimo) per favoreggiamento a Cosa Nostra per non aver perquisito il covo di Riina dopo la cattura avvenuta il 15 gennaio del 1993. Una sbadata "dimenticanza" che ha permesso ai picciotti di ripulire il covo di tutti i documenti compromettenti e che avrebbero testimoniato in modo inequivocabile la trattativa in corso tra mafia e istituzioni. Ma soprattutto è da mesi che è in corso un altro processo, in cui sono imputati ancora una volta il generale Mori e il colonnello Obinu, questa volta per aver favorito la latitanza di Bernardo Provenzano. Evitarono di arrestarlo nel lontano 1995 boicottando il blitz nel casolare di Mezzojuso, col risultato che Provenzano rimarrà latitante per altri 11 lunghissimi anni. Dov'è stato Violante in tutto questo tempo? Non gli è passato per la testa che forse quell'episodio che oggi racconta sarebbe potuto servire ai magistrati inquirenti per farsi un'idea migliore delle varie vicende?

Non risulta per lo meno sospetto il fatto che Violante inizi a ricordare qualcosa solo dopo che Massimo Ciancimino ha fatto espressamente il suo nome come persona informata della trattativa in corso tra stato e mafia?

Ma non c'è da stupirsi. Violante appare sempre più come un uomo in grave stato confusionale. Nato comunista, giudice, ha passato la sua gioventù politica a difendere i magistrati e ad attaccare pesantemente Berlusconi e il suo partito. Sentitelo quattordici anni fa, sembra il Di Pietro di oggi: "Il partito dei giudici non esiste, esiste invece quello degli imputati eccellenti, capeggiato da Craxi e composto da un pezzo di classe politica abituata all’impunità". Oppure: "Un manipolo di piduisti e del peggio vecchio regime... ripete le parole d’ordine del fascismo e del nazismo quando morivano nei lager i comunisti, i socialisti e gli ebrei. E con questa parola d’ordine la mafia uccideva i sindacalisti. E’ una chiamata alla mafia, quella che Berlusconi ha fatto". Oppure: "Le proposte di Berlusconi rispondono alle richieste dei grandi mafiosi". O ancora: "C’era un giro di mafia intorno al premier, e non so se c’è ancora".

Poi qualcosa è cambiato. Berlusconi ha vinto e Violante è diventato adulto. Si è messo ad inciuciare con Silvio. Sono diventati grandi amici. Con un famoso discorso alla camera del 2003 ha svelato che ci fu un patto scellerato tra la sinistra e Berlusconi affinchè al Cavaliere non venissero portate via le concessioni televisive, in cambio ovviamente di favori politici. E' oggi apprezzato da Ignazio La Russa per la sua moderazione e da Angelino Alfano per le sue idee sulla giustizia (che ricalcano il Piano di Rinascita di Gelli). Ha riabilitato Almirante, Fini e Craxi (da "latitante" a "capro espiatorio dal formidabile spirito innovativo"). Non perde occasione di bacchettare i magistrati ("Ci sono magistrati pericolosi che hanno costruito le loro carriere sul consenso popolare"). Appare regolarmente come ospite, unico del partito Democratico, alle feste del Pdl. I complimenti per la coerenza sono d'obbligo.

Intanto, un'altra notiziucola è passata inosservata. Giuseppe Ayala, famoso magistrato del pool antimafia, che non perde occasione per ribadire la propria amicizia con Falcone e Borsellino, autore del libro "Chi ha paura muore ogni giorno. I miei anni con Falcone e Borsellino" edito da Mondandori, già parlamentare e di nuovo magistrato, ha rilasciato, con nonchalance, un'intervista ad Affaritaliani.it in cui spazia dai misteri delle stragi al proprio rapporto personale con i due giudici morti ammazzati. E ad un certo punto, alla domanda del giornalista sulle dichiarazioni di Nicola Mancino che nega categoricamente di aver mai incontrato Paolo Borsellino, lascia cadere la bomba: "Io ho parlato con Nicola Mancino, per diversi anni mio collega al Senato. Lui ha avuto un incontro con Borsellino, del tutto casuale, il giorno in cui andò in Viminale a prendere possesso della sua carica al Ministero". Il giornalista, esterrefatto, obietta: "Ma lui ha sempre negato l'incontro". Ayala non fa una piega: "Ma lui mi ha detto che lo ha avuto. Mi ha fatto vedere anche l'agenda con l'annotazione. Anche se francamente non ho elementi per leggere la dietrologia di questo incontro. C'era Borsellino al Viminale che parlava con il capo della polizia di allora che era Parisi. Parisi gli disse che c'era Borsellino e se voleva salutarlo. Mancino rispose "Si figuri". Così lo accompagnò nella sua stanza, in mezzo ad altre persone. Lì ci fu una stretta di mano. Ma non ho alcun elemento per pensare che il ruolo di Mancino fu un altro."

Dunque, per il principio del terzo escluso, una cosa sembra certa. O Ayala mente. O Mancino mente.

Ma soprattutto, cosa ha spinto Ayala a fornire questo "assist" (come l'ha prontamente definito Salvatore Borsellino) a Mancino? E che sia un tentativo di aiuto all'amico, verso cui dichiara di nutrire profonda stima, non c'è dubbio. Lo si capisce dal modo tendenzioso in cui ripropone la ricostruzione della vicenda. Che bisogno c'era di sottolineare che l'incontro è stato "del tutto casuale"? E poi: come fa a riportare le esatte parole che Mancino e Borsellino si sarebbero detti (o non detti)? Come fa ad essere sicuro che c'è stata solo una stretta di mano? Lui non era certamente presente e quindi la versione che lui spaccia per vera non può essere nient'altro che quella raccontatagli da Mancino. Certamente non una fonte imparziale. E perchè tutta questa foga nel cercare di sminuire la portata di quell'incontro, il che, secondo la formula dell'excusatio non petita, non fa altro che inguaiare ancora di più la posizione di Mancino?

Sì, perchè il nostro vicepresidente del Csm, intervistato non più di qualche mese fa per La7 dalla giornalista Silvia Resta, aveva tirato fuori da un cassetto del suo studio un calendarietto che avrebbe dovuto dimostrare che il 1 luglio non ci fu alcun incontro con Paolo Borsellino. In effetti, l'agendina mostrata da Mancino alle telecamere per qualche secondo, risultava praticamente vuota alla data 1 luglio 1992. Il problema è che tutta la settimana precedente al 1 luglio appariva vuota. Difficile pensare dunque che quella fosse l'agenda ufficiale di Mancino. Era evidentemente un tentativo maldestro per proclamarsi estraneo alla vicenda. Ora, grazie alle parole altrettanto maldestre di Ayala, sappiamo che di agendine Mancino ne ha almeno due. Una da mostrare alla stampa e una da mostrare negli incontri privati. In cui a quanto pare c'è la prova che quell'incontro effettivamente c'è stato.

Nicola Mancino è un'altra persona in grave stato confusionale. Tutte le bugie da lui raccontate in questi mesi stanno crollando miseramente e lo stanno mettendo all'angolo. E dimostrano come quell'incontro fu tutt'altro che casuale, tutt'altro che di poco conto. Che bisogno ci sarebbe stato di mentire spudoratamente per tutto questo tempo, se non ci fosse qualcosa di grosso e di inconfessabile da coprire?

Resta da capire l'uscita alquanto inaspettata di Ayala. E' chiaro che non stiamo parlando di uno sprovveduto. E' stato forse imboccato da Mancino, che prima o poi dovrà confessare ai magistrati l'avvenuto incontro del 1 luglio e quindi si sta preparando a spianare il terreno? Molto probabile. Oppure l'ha fatto sinceramente per cercare di tirar fuori dai guai l'amico, che Vito Ciancimino ha indicato espressamente come il terminale istituzionale della trattativa tra stato e mafia? Senza accorgersi, per altro, di mettere Mancino in una situazione ancora più imbarazzante? Ne dubito.

Pochi minuti fa è arrivata puntuale la risposta all'assist di Ayala. Dichiara Mancino: "Ayala afferma ciò che io non ho mai escluso e, cioè, che è stato possibile avere stretto, fra le tantissime mani, anche quella del giudice Borsellino, il giorno del mio insediamento al Viminale. Ma tra avergli stretto la mano in mezzo ad altre persone senza avergli parlato e avere incontrato e parlato con il giudice Borsellino, c'è una bella differenza. Ayala, però, fa confusione sulle agende. Sulla mia, che molti testimoni hanno visto e che è stata mostrata anche in TV, il primo luglio 1992 c'è una pagina bianca senza alcuna annotazione di incontri".

Per la serie: mi son confuso confondendomi.

Nutro forti perplessità sulla figura di Giuseppe Ayala. E quest'ultima esternazione non fa altro che aumentare i miei dubbi. Ayala è colui che arrivò per primo sul luogo della strage di Via D'Amelio. Alloggiava infatti al Residence Marbella a 150 metri di distanza. Ancora in mezzo alle fiamme e circondato dai pezzi carbonizzati di Paolo e della sua scorta, riuscì a scorgere all'interno della Croma blindata una valigetta. Da qui in poi la ricostruzione diviene confusa. Ayala ha dato successivamente varie versioni differenti dell'accaduto. Prima ha dichiarato che un carabiniere in divisa aprì la macchina, estrasse la valigetta e gliela consegnò, ma lui, non essendo più a quel tempo un magistrato, si rifiutò di prenderla in consegna. Poi, dopo le dichiarazioni (per altro confuse e contraddittorie) di Arcangioli che ribaltavano questa versione, Ayala ritratta e dice che in realtà non esisteva nessun carabiniere e che vide lo sportello della macchina già aperto e che fu lui materialmente a estrarre la valigetta, senza però mai aprirla. Poi ritratta ancora. Fu una persona in borghese, e non lui, ad estrarre la valigetta dall'auto. Lui la prese in consegna e poi la consegnò ad un carabiniere in divisa. Dice anche di non aver riconosciuto Arcangioli nei personaggi in divisa che si sono occupati della borsa.

Fatto sta che quella valigetta dopo pochi secondi compare proprio nelle mani di Arcangioli, immortalato mentre si dirige con passo sicuro e sguardo tutt'altro che disorientato verso la fine di Via D'Amelio, all'incrocio con Via Autonomia Siciliana (e non sul lato opposto della strada, come dichiarato dallo stesso Arcangioli). La borsa ricomparirà dopo un'ora e mezza sul sedile posteriore della macchina del giudice, priva dell'agenda rossa.

Ayala ha sempre giustificato le varie versioni con la scusa (comprensibile) di essere stato talmente sconvolto dall'accaduto da non avere un ricordo lucido di quegli istanti. Sarà. Ma lo stato di confusione mentale, se ci mettiamo pure le dichiarazioni di Arcangioli, è grande e sicuramente non ha contribuito all'accertamento della verità. Ma come fa un uomo, evidentemente in stato di shock emotivo, ad avere la prontezza e la freddezza di notare una valigetta all'interno della Croma ancora in fiamme? E perchè l'attenzione di Ayala si concentra subito su quel particolare e non sul putiferio di fumo, sangue e fuoco che lo circonda? Perchè tanto interesse?

Domande che per ora non hanno una risposta. Per ora. Quattro procure hanno riaperto ufficialmente le indagini sulle stragi. Qualcuno trema. Qualcuno si arrende. Qualcuno se la fa sotto. Si sente già l'odore.

martedì 21 luglio 2009

L'hanno ammazzato loro


Innanzitutto i miei più vivi complimenti a David Parenzo, giornalista di Telelombardia e conduttore ieri sera di una memorabile puntata di Iceberg, intitolata "Mafia: le verità nascoste". Presenti in studio il figlio di Vito Ciancimino, l'avvocato Gaetano Pecorella, Nando Dalla Chiesa, Gianluigi Nuzzi di Panorama, autore di "Vaticano S.P.A." e in collegamento da Roma Luigi Li Gotti e Giuseppe lo Bianco, autore de "L'agenda rossa di Paolo Borsellino". Ne è emersa una discussione pacata e profonda tra personaggi competenti che ha sviscerato senza alcuna titubanza e in un colpo solo tutti quegli argomenti rigorosamente tabù che sono accuratamente evitati dalla televisione nazionale pubblica e privata.

Si è parlato in piena libertà della trattativa tra stato e mafia a cavallo delle stragi di Capaci e Via D'Amelio, si è parlato del ruolo dei servizi segreti, si è parlato del Castel Utveggio da cui probabilmente è stato azionato il comando che ha fatto saltare in aria Borsellino e la sua scorta, si è parlato di infiltrazioni mafiose nella politica, si è parlato di Salvo Lima e Ignazio Salvo esponenti mafiosi della corrente andreottiana in Sicilia, si è parlato di pezzi deviati dello stato, si è parlato della copertura offerta alla latitanza di Provenzano, del ruolo poco chiaro dei Ros, del generale Mori e del colonnello Obinu, si è parlato dell'agenda rossa, del capitano dei carabinieri Arcangioli con la borsa in mano e dell'indagine archiviata, si è parlato di Nicola Mancino e del suo incontro del 1 luglio con Paolo Borsellino, si è parlato delle confessioni di Brusca e Mutolo, si è parlato degli intrecci pericolosi tra mafia e Vaticano, del ruolo dello Ior nel riciclaggio di denaro sporco, della protezione offerta dal Vaticano a Vito Ciancimino, dei conti segreti cifrati di Andreotti, si è parlato dei banchieri di Dio, Calvi e Sindona, si è parlato dell'omicidio Ambrosoli, si è parlato dell'arcivescovo Marcinkus, si è parlato perfino dei memoriali del pentito Vincenzo Calcara diffusi sul suo sito da Salvatore Borsellino.

Mi verrebbe da dire: Parenzo è impazzito. Come mai, tutto d'un colpo, una piccola emittente privata (in realtà, nemmeno troppo piccola) trova la forza di affrontare argomenti che in tutti questi anni sono sempre stati appositamente nascosti dai media di massa? Sfido chiunque si cibi solo di televisione a dirsi al corrente anche solo di uno dei temi sopra citati. Solo la rete e alcuni libri di inchiesta contengono informazioni in proposito. Per chi già conosceva i fatti deve essere stata una bella boccata d'ossigeno di informazione libera. Per chi ne era all'oscuro, una bella doccia ghiacciata da far rabbrividire. Ancora complimenti vivissimi.

Il punto è che, per la prima volta dopo diciassette lunghissimi anni, qualcosa sembra smuoversi. Quelli che erano stati solo sospetti cominciano ad assumere contorni ben definiti. Le denunce lanciate dai soliti noti, gli eroi dell'antimafia militante, tacciati di protagonismo e di "complottismo acuto", cominciano a risultare assolutamente credibili e a poggiare su basi ben solide. Una concomitanza di avvenimenti ha cominciato a smuovere le acque, anzi la melma che ricopre quei lontani mesi del '92-'93 che alcuni vorrebbero subdolamente dimenticare e relegare all'oblio.

E' successo che a Caltanissetta si è insediato come procuratore generale Sergio Lari e come per incanto sono ripartite le indagini sulle stragi, insabbiate e abbandonate da tempo. E' successo che da qualche mese si è messo a cantare Massimo Ciancimino, il figlioccio dell'ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, che parla della trattativa tra mafia e stato mediata da suo padre, facendo nomi e cognomi. E' successo che da qualche mese è in corso il processo a carico del generale Mori e del colonnello Obinu, indicati come coloro che materialmente portarono avanti la trattativa tra Riina e lo stato e sono accusati di aver coperto la latitanza di Bernardo Provenzano. E' successo che da qualche mese ha iniziato a parlare un nuovo pentito, Gaspare Spatuzza, che, ribaltando le verità processuali confermate dalla Cassazione, si autoaccusa e dice di aver rubato lui (e non Vincenzo Scarantino) la macchina riempita di tritolo con cui si è sventrato il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta. Succede che Spatuzza è ritenuto assolutamente attendibile dai magistrati (Ingroia e Di Matteo) che lo stanno ascoltando e quindi si profila la revisione di tutti i processi che avevano messo una pietra sopra la strage di Via D'Amelio (Borsellino uno, bis e ter). Succede che Totò Riina, dopo sedici anni e mezzo dalla cattura, torna a parlare in via ufficiale facendo pervenire ai giornali un messaggio inquietante per tramite del suo avvocato Luca Cianferoni: "L'hanno ammazzato loro". Dove per "lo" si intende Paolo Borsellino e per "loro" si intende lo Stato.

E lo fa il giorno della diciassettesima commemorazione della strage di Via d'Amelio.

Basterebbe quest'ultima (evidentemente voluta) coincidenza per far tremare i polsi e far capire come si stia giocando, nel silenzio totale dell'informazione nazionale, una partita delicatissima tra mafia e istituzioni, in un rincorrersi di confessioni, minacce, intimidazioni, smentite di facciata, messaggi più o meno criptici, ora che la verità sulle stragi di quegli anni sembra quanto mai vicina. Una verità che rischierebbe di stravolgere dalle fondamenta lo stato democratico in cui viviamo e che per questo fa una paura tremenda.

Sarebbe curioso se, come la Prima Repubblica crollò sotto l'inchiesta di Mani Pulite e la Seconda nacque nel sangue delle stragi, così quest'ultima crollasse sotto le indagini su quelle stesse stragi e desse il via ad una Terza Repubblica, quella che sognava Paolo Borsellino, ripulita del "puzzo del compromesso morale" e delle stantie collusioni mafiose. Una specie di legge universale del contrappasso.

Ciò che crea sconcerto sono le reazioni del mondo istituzionale ad un tale susseguirsi di avvenimenti e dichiarazioni.

Partiamo dalla manifestazione di tre giorni indetta da Salvatore Borsellino e dal comitato cittadino 19luglio1992 tenutasi a Palermo dal 18 al 20 luglio. Sono giunte centinaia di persone da tutta Italia. Persone comuni della società civile, che si sono pagate di tasca propria il biglietto dell'areo, del treno o del pullman per essere presenti di persona in Via D'Amelio, armate solo di una simbolica agenda rossa e di tanta tanta rabbia. Hanno percorso sotto il sole feroce di un luglio siciliano i quattro chilometri in salita che congiungono Via D'Amelio al Castel Utveggio che domina Palermo. Hanno presidato per ore via D'Amelio ascoltando ed applaudendo gli interventi di Salvatore e Rita Borsellino, Luigi De Magistris, Sonia Alfano, Giulio Cavalli, Gioacchino Genchi e tanti altri ragazzi provenienti da varie regioni d'Italia. Hanno appeso striscioni, hanno camminato in processione, hanno vegliato sul teatro della strage. Il tutto da soli. Lasciati incredibilmente soli. Traditi perfino dalle cosiddette associazioni antimafia, che hanno preferito disertare l'appello di Salvatore e commemorare (chissà perchè: forse per invidie meschine, forse per concorrenza) in altre sedi e in altri luoghi. Traditi dai Palermitani che, come ha denunciato dal palco Salvatore, hanno preferito andare al mare, tradendo quella promessa fatta diciassette anni prima, quando cacciarono a calci dalla cattedrale di Palermo i rappresentanti delle istituzioni presenti ai funerali del fratello.

Ma soprattutto è stata sconcertante l'assenza dello Stato. Ed è stata una vittoria grandiosa di Salvatore. Nessun uomo politico ha osato avvicinarsi quest'anno, ed è la prima volta da diciassette anni a questa parte, all'ulivo piantato in Via D'Amelio "per celebrare i loro riti di morte e assicurarsi che Paolo sia veramente defunto". Non ha osato metterci piede il ministro della giustizia Angelino Alfano, forse ricordandosi di essere stato sorpreso a presenziare al matrimonio della figlia del boss mafioso Santacroce: ha mandato solo un messaggio di circostanza. Non ha osato metterci piede il presidente del senato Renato Schifani, forse ricordandosi di aver messo su una società con il noto mafioso Nino Mandalà e aver fatto parte del consiglio comunale di Villabate sciolto due volte per infiltrazioni mafiose: ha mandato solo un messaggio di circostanza. Ma non ha osato metterci piede nemmeno il capo dello stato Giorgio Napolitano. Eppure lui non aveva scuse: ha mandato solo un messaggio di circostanza. Per la prima volta nemmeno una corona di fori è stata posta in via D'Amelio. "Le corone di fiori andate a metterle sulle tombe dei vostri eroi", così recitava uno striscione legato ad una lapide posticcia di Vittorio Mangano.

Non per niente però Napolitano ha prontamente commentato le esternazioni di Totò Riina e ha liquidato il tutto con una battuta: "Le rivelazioni rese note nei giorni scorsi a proposito di una pista che porterebbe al coinvolgimento di apparati dello Stato nelle stragi di mafia del 1992 in cui persero la vita, fra gli altri, i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, sono più o meno senzazionalistiche e provengono da soggetti, diciamo così, piuttosto discutibili". Io non so se il nostro presidente della repubblica si rende conto che "queste rivelazioni sensazionalistiche" sono state confermate dai principali procuratori che stanno in questi giorni indagando sulle stragi. Di trattativa tra stato e mafia e di interessi collimanti tra Cosa Nostra e pezzi delle istituzioni nelle stragi del '92 hanno parlato esplicitamente sia Antonio Ingoria, procuratore a Palermo, che Sergio Lari, procuratore a Caltanissetta. Ma soprattutto esiste una sentenza col timbro della Cassazione, relativa al processo Borsellino Bis, in cui si parla chiaramente di "mandanti occulti ed esterni a Cosa Nostra", su cui ancora non si è riusciti a far luce. Napolitano sembra ignorare tutto questo. Ma non è una sorpresa. Il 13 dicembre 2008, con beata impudenza, ebbe già a dichiarare che "non esistono nè fascicoli segreti nè misteri al Viminale".

A che gioco sta giocando Napolitano? Chi sta cercando di coprire?

Probabilmente sta cercando di coprire il suo vice, Nicola Mancino, vicepresidente del CSM. Un altro che farebbe meglio a tacere piuttosto che perdersi in ridicole quanto patetiche giustificazioni. Esiste un pentito, Gaspare Mutolo, che racconta come Paolo Borsellino, che lo stava interrogando il 1 luglio del 1992, ricevette una chiamata dal ministro Nicola Mancino. Esiste un testimone oculare, l'allora procuratore di Palermo Antonio Aliquò, che accompagnò Borsellino fin sulla porta del Viminale. Ma soprattutto esiste l'agenda grigia dello stesso Paolo Borsellino su cui è segnata distintamente l'ora esatta dell'incontro col ministro: ore 19:30. Quell'incontro è lo snodo fondamentale di tutta la vicenda. In quell'incontro, verosimilmente venne prospettata a Borsellino la possibilità di scendere a patti con Cosa Nostra per fermare le stragi. Il suo ovvio rifiuto avrebbe coinciso con la sua condanna a morte.

Mancino non ricorda quell'incontro, ma mai l'ha negato. Si è sempre nascosto dietro risibili giustificazioni: "non sapevo che faccia avesse Borsellino", "era il mio primo giorno di insediamento al Viminale", "perchè dovrei nascondere l'incontro?", "cosa ci saremmo dovuti dire?" e via dicendo. Ripeto: più adduce simili motivazioni, più la sua posizione appare a dir poco opaca. Allo stesso modo, fino a poco tempo fa, aveva sempre negato categoricamente che fosse esistita una trattativa con la mafia. Il 16 gennaio 2009 così dichiarava: "Escludo in maniera netta e categorica che lo Stato abbia trattato con esponenti della mafia. Ignoro le 'assunte trattative' che comunque avrei fermamente osteggiato, tra gli uomini del Ros e il signor Ciancimino tese a far accantonare da parte della mafia l'offensiva contro lo Stato". Per la serie: io non c'ero e, se c'ero, dormivo. Oggi, a distanza di pochi mesi, Mancino invece conferma che la trattativa c'è stata e il governo ha detto immediatamente no: "Noi l'abbiamo sempre respinta. L'abbiamo respinta anche come semplice ipotesi di alleggerimento dello scontro con lo Stato portato avanti dalla mafia".

E' confortante vedere che, piano piano, incalzato dalle scoperte delle varie procure d'Italia, Mancino recuperi un po' della sua memoria e lasci trapelare cose di cui, si capisce, sa molto di più di quanto vorrebbe far credere. Tra un po', molto probabilmente, Mancino verrà chiamato da una delle quattro procure che stanno indagando ancora sulle stragi (Palermo, Caltanissetta, Roma e Firenze) come persona informata sui fatti e a quel punto dovrà parlare, non potrà continuare a cincischiare. Massimo Ciancimino l'ha tirato in ballo esplicitamente come terminale istituzionale della trattativa. Riina l'ha tirato in ballo, chiedendo come facesse a sapere della sua cattura quattro giorni prima dell'arresto. Mutolo l'ha tirato in ballo, come abbiamo visto.

Una cosa è certa, ormai. La trattativa c'è stata, è iniziata prima della strage di Via D'Amelio ed è continuata almeno fino alla cattura di Riina (15 gennaio 1993). Fino a prova contraria, Mancino, per tutto quel lasso di tempo, è stato il ministro dell'interno. Vuole davvero farci credere che il generale Mori, incaricato di trattare con Riina per tramite di Vito Ciancimino, operasse all'insaputa del Ministero dell'Interno? E, se davvero è così, per conto di chi e di quali pezzi deviati dello Stato operava Mori?

I casi sono due: o Mancino mente spudoratamente ed è quindi colluso, o dice la verità ed è quindi un allegro sprovveduto che non dovrebbe ricoprire incarichi tanto delicati. In entrambi i casi, avrebbe solo una cosa da fare: dimettersi dal Csm e dire tutto quello che sa.

Le rivelazioni di Massimo Ciancimino sono delle bombe a orologeria pronte a scoppiare. C'è solo da attendere chi innesterà la miccia. A partire dalle parole che il padre gli rivolse il giorno della strage di Via D'Amelio per annunciargli la morte di Paolo Borsellino. Disse Vito Ciancimino: "Mi sento un po' responsabile".

Ecco, io non vorrei che tra un po', a pronunciare quelle esatte parole, siano uomini che ora siedono nei piani più alti della nostra disgraziata repubblica.

domenica 19 luglio 2009

venerdì 10 luglio 2009

Il trappolone


Doveva essere la passerella finale. L'ultimo show prima del crollo. Il capolinea di una parabola discendente iniziata ormai da mesi. Tutto lo lasciava presagire. I giornali italiani lo sostenevano con convinzione: non passerà lo scoglio del G8. Quelli esteri facevano a gara per rilanciare gli scandali del nostro presidente del consiglio, per ribadire la sua inadeguatezza a governare il nostro paese e tanto più quindi ad organizzare l'incontro tra i potenti della terra. Vignette dissacranti, editoriali al vetriolo, prime pagine con il faccione di Silvio attorniato da donnine nude, fuoco e fulmini neanche fosse un tiro al piccione, una sparatoria gratuita sulla Croce Rossa dalle Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Po.

Dicevano: vedrete, arriveranno i nostri, arriveranno i giornali della stampa straniera, quelli sì che non si fanno sottomettere, quelli sì che non hanno il guinzaglio e, vedrete, lo ribalteranno come un calzino, lo tempesteranno di domande scomode, lo distruggeranno e allora anche la stampa italiana non potrà più tirarsi indietro ed avrà finalmente il coraggio di far sentire la propria voce. Il G8, dicevano, sarà il grande trappolone. Silvio non ci dorme la notte, tanto è preoccupato per le domande che potrebbero fargli. E' agitato, è angosciato, non pensa ad altro.

L'Aquila. Ore 13:58. Conferenza stampa finale al termine del G8. Una sala strapiena di giornalisti di tutto il mondo è in trepidante attesa. Nei giorni precedenti poche sono state le occasioni di porre delle domande direttamente al presidente del consiglio, organizzatore in pectore dell'evento. Ora c'è una lunga fila, sembra quasi una processione, di giornalisti assetati di sapere, di chiedere, di conoscere. Fanno a gara per essere i primi a porre la loro domanda, quella domanda che hanno preparato da mesi, che hanno ripetuto a memoria per giorni e giorni mica di fare poi brutta figura, la domanda che finalmente metterà in crisi il presidente del consiglio, che li accrediterà agli occhi del mondo come esempio fulgido di giornalismo libero e indipendente. Il trappolone è lì, pronto e ben congegnato. Silvio ha tentato invano in questi giorni di sfuggire ai microfoni. Ma ora non può. Lo vuole il protocollo. Deve sottoporsi al fuoco incrociato della stampa di tutto il mondo. Ma soprattutto italiana.

Tutti in platea hanno già l'acquolina in bocca. Pare già di sentirli. Si partirà con il caso-Noemi. Un paio di domande ben assortite sulla frequentazione di minorenni e sui trascorsi poco chiari del padre di Noemi. Poi si passerà alle foto di Villa Certosa, quelle foto che il Times aveva minacciato pubblicare. Baci saffici di fronte a Silvio, sul cui grembo sono sedute due ninfe seminude. E poi magari anche un accenno a Topolanek e alla sua esibizione integrale, se così si può dire. E poi via con un'altra raffica di domande sul giro di prostitute a Palazzo Grazioli. Qui ce n'è da sbizzarrirsi. Gli appalti truccati, le inchieste di bari, le amicizie con Tarantini indagato per spaccio di droga, le dichiarazioni imbarazzanti della D'Addario, gli assegni da migliaia di euro a botta distribuiti nel suo harem. E poi ancora, un'altra domandina, giusto per il gusto di infierire, sulla cena segreta con due magistrati della Corte Costituzionale che dovranno esprimersi sul Lodo Alfano. Magari anche un accenno alle bordate arrivate dalla Chiesa, sia sul rispetto del rigore morale che sulla bocciature del ddl sicurezza. E poi, per finire in bellezza e dargli il colpo grazia, la fatidica domanda che tutti stanno attendendo. Buttata lì, quasi con nonchalance: "Signor presidente, ha poi risposto alla lettera di Bernardo Provenzano che le prometteva aiuti politici in cambio di una rete televisiva favorevole a Cosa Nostra? Sa, così per sapere..."

L'Aquila. Ore 14:00. Inizia la conferenza stampa finale al termine del G8.

Berlusconi è lì, pronto a soccombere sotto il tiro incrociato. Lo sa e si prepara all'ultima battaglia. Ha il volto tirato. E' conscio che questa sarà la sua ultima conferenza stampa e con l'ironia che da sempre lo caratterizza, chiosa: "Vi ringrazio e mi consegno alle vostre domande". Mi consegno. Le parole non sono casuali. E' un esplicito segnale di resa. Come il condannato a morte che saluta il plotone di esecuzione che gli darà la morte.

Parte l'affondo del primo cronista. Si chiama Gianpaolo Pioli del Quotidiano Nazionale. A lui (e chissà perchè proprio a lui) è spettato l'onore di infliggere la prima stoccata. Attacca veemente: "Lei e Obama siete stati di fatto i due presidenti di questo G8 di grosso successo organizzativo. Vi siete conosciuti appena tre settimane fa a Washington direttamente. Lei pensa di poter dire di essere già amico di Obama?"

Berlusconi non riesce a reggere l'urto dell'impatto. Si aspettava qualcosa di forte, ma questo va ben oltre le sue aspettative. Suda, non sa cosa rispondere. Si vede che è in evidente imbarazzo. Poi abbozza: "Ho avuto un rapporto molto cordiale. Ieri sera siamo stati seduti vicini lungo tutta la cena offerta dal presidente della Repubblica e ci siamo parlati in maniera molto simpatica. Lui mi ha raccontato cose della sua vita privata. Io gli ho raccontato cose della mia vita privata".

Eccola là. Prima frase, prima gaffe tremenda. Ghedini gliel'aveva detto di non pronunciare mai il binomio "vita privata". E lui invece, preso di sprovvista dalla cattiveria della domanda si è lasciato andare. Chissà adesso cosa succederà. Il prossimo giornalista prenderà la palla al balzo e si accanirà sicuramente a chiedere sarcastico di quali "cose della sua vita" privata abbia parlato al presidente Obama. Nell'ilarità generale. Silvio si morde le labbra. Vorrebbe non aver mai pronunciato quella frase. Prega dentro di sè. Ecco che arriva la seconda bordata.

E' Antonio Preziosi del giornale RadioRai, che non si fa pregare e va subito al dunque: "Volevo chiederle che emozioni le ha dato quello che ieri sera è stato già definito da molti osservatori un momento storico, la stretta di mano tra Obama e Gheddafi, e quali imput sono arrivati per la pace nel mondo". Berlusconi barcolla. Questo è veramente troppo anche per un uomo consumato come lui. Balbetta: "Mah, veramente, non ho provato nessuna emozione...". Poi si guarda in giro, spaesato. Sa di averla detta grossa. Ma c'è tempo di pensarci. Già un nuovo squalo è pronto ad azzannarlo.

Si chiama Andrea Fabbozzi del Manifesto. Quando Silvio sente che è un giornalista del Manifesto gli prende un coccolone. Si appoggia con le mani al banchetto perchè lo regga. Fa un sorrisino di circostanza e attende la scure. Figurarsi, questo è un comunista dichiarato. Chissà cosa si inventa. E infatti arriva il missile terra-aria: "In questi giorni lei ha goduto della tregua chiesta dal presidente Napolitano che è stata rispettata dall'opposizione e anche dalla grande stampa nazionale. Finito il G8, lei può impegnarsi a ricambiare ed evitare attacchi alla stampa?". Berlusconi è letteralmente al tappeto. Tenta di replicare, più per istinto di sopravvivenza che altro: "Io non ho goduto di nulla. Semplicemente la situazione è rientrata nella normalità. Io non ho fatto nessun attacco alla stampa. E' la stampa che ha attaccato me. Normalmente non ho risposto. Qualche volta qualche risposta l'ho data".

In sala tutti stanno sghignazzando. E' chiaro che è una menzogna plateale. Nessuno avrebbe potuto bersela. Silvio lo sa bene. Ma sa anche che sono le sue ultime cartucce. Perdere sì, ma almeno in modo decoroso. Ha subìto tanti attacchi nella sua vita, ma questo veramente li supera tutti. Almeno darà l'idea di aver combattuto con onore. Non c'è tregua. Al microfono si è già presentato Alessandro Barbera della Stampa. Parte con un gancio in pieno volto: "Oggi i giornali scrivono che nella cena di ieri sera c'è stato un piccolo cambiamento nella disposizione dei posti a tavola. Volevo chiedere se è stata una scelta sua quella di avvicinare Obama a Gheddafi". Berlusconi tira un sospiro di sollievo. Questa se l'era preparata. Ha già la risposta pronta: "I posti a tavola sono stati assegnati dal cerimoniale della presidenza della Repubblica. Era una cena offerta dal Presidente della Repubblica". Si risolleva, Silvio. Ha messo a segno il primo punto. E' così che si difende un vero lottatore. Ora sfida con lo sguardo persino il prossimo giornalista, che già smania per riuscire in ciò in cui il suo collega precedente ha fallito.

E' una donna. Si chiama Simonetta Guidotti, di RaiNews24. E' un fiume in piena. Inarrestabile: "Presidente, quando dopo il terremoto lei decise di trasferire dalla Maddalena a L'Aquila il G8 si definì un pazzo lucido. Ecco: la scommessa è stata vinta. E' andato tutto bene, l'organizzazione è stata perfetta. Nessuno si è lamentato per quanto riguarda le decisioni politiche prese. Quale di queste cose più le dà soddisfazione?". Berlusconi arretra. Si vede che questo è stato un colpo basso. Da una donna, poi. Non c'è più rispetto. Tenta di difendersi, dice che questo è stato il migliore G8 di sempre. Ovviamente sa che è una bestialità, ma non può far altro che mentire. Ringrazia Bertolaso e la Guardia di Finanza. Cerca di convincere i presenti che i cantieri per la ricostruzione incominceranno con tre giorni d'anticipo. Una balla così grossa non la raccontava dai tempi dello stalliere di Arcore. Si guarda attorno per cercare sguardi amici. Non ne trova.

Anzi. E' pronto l'ennesimo giornalista assetato del suo sangue. Ma quanti sono? E' Andrea Pesciarelli, del TG5. Silvio si ravviva per un momento. Non riesce a crederci. E' un suo giornalista, di quelli che lui ha creato. Questo dovrebbe essere dalla sua parte. Ma non c'è nulla da fare. Persino l'inviato del TG5 non riesce trattenersi dalla foga forcaiola che sembra aver preso tutti i presenti. Usa parole di una durezza spietata: "Facendo un bilancio di questo vertice, ci troviamo di fronte ad un album fotografico pieno di istantanee importanti. Alcune con i grandi della terra che lei ha accompagnato tra le rovine del terremoto o la stretta di mano tra Omaba e Saddam...eeeeh..il presidente libico Gheddafi. Ma anche quelle legate ai rintocchi di campane che oggi hanno chiuso questo vertice. Se lei dovesse sceglierne una in particolare, quale sceglierebbe e perchè?". Da lui proprio non se l'aspettava. No. Lui che la preso dal nulla e l'ha fatto lavorare. Che gli ha dato uno stipendio e una casa. Silvio più che adirato è profondamente deluso. Preso dallo sconforto, come il generale abbandonato anche dai suoi più fedeli servitori, risponde secco: "Io sceglierei i rintocchi di campana".

Il prossimo è un giornalista aquilano. Si chiama Franco Gizzi. Le sue parole trasudano dignità. Tutto il dolore del popolo d'Abruzzo condensato in poche accorate frasi, che mettono il presidente del consiglio di fronte alla vergogna delle promesse che mai verranno mantenute: "Signor Presidente, io volevo semplicemente ringraziarla a nome de L'Aquila che non si è fatta strumentalizzare politicamente per questa sua favolosa intuizione che ci ha fatto veramente sognare in questo periodo. Le chiedo di mantenere alta l'attenzione. Ho già sentito che lei sarà qui a L'Aquila nel prossimo mese di agosto per trascorrere parte delle sue preziose ferie. La nostra speranza è che si continui a lavorare per ricostruire questa nostra città distrutta dal sisma". Silvio è spiazzato. Questa volta è rimasto anche lui senza parole. E' sconcertato. Non si raccapezza. Tenta una battuta: "Posso farle io due domande? Prima domanda. Lei è sicuro di essere un giornalista? Seconda domanda: è sicuro di sentirsi bene?".

Un'ironia spicciola che non viene gradita dal pubblico. Si sentono mugugni in platea. Silvio è alle corde. Ma ha ancora la forza di rispondere all'ultima devastante domanda. Gli viene posta da Luigi Ambrosino dell'Agenzia Ansa: "Dopo mesi di polemiche intense sulla stampa straniera pensa che si possano gettare le basi per riannodare i fili del dialogo con l'opposizione?". Silvio fa come per andarsene. Questo è veramente un insulto alla sua persona. Ha per un attimo l'istinto di buttare all'aria tutto, lanciare via il microfono contro quel giornalista spudorato e gridare al mondo la sua rabbia per un evidente complotto planetario ordito contro di lui. Ma si trattiene. Pensa a Napoleone sull'Isola di Sant'Elena. Pensa a se stesso a Villa Certosa. Ha un ultimo scatto d'orgoglio. L'ultimo, prima di scomparire definitivamente dalla scena politica. "Dialogo con quest'opposizione? Mai!".

La platea scoppia in un boato e bordate di fischi lo assalgono. La security a stento riesce a sottrarlo alla furia dei giornalisti che vorrebbero fargli altre domande. Finisce così miseramente l'era gloriosa di Silvio Berlusconi IV da Arcore. Grazie ad un sussulto di dignità della stampa cosiddetta libera.

Che, checchè se ne dica, è ancora brillantemente in vita e salvaguarda ogni giorno la stabilità democratica del nostro paese.

Grazie ragazzi.

martedì 7 luglio 2009

Chi ha paura delle badanti?


Qualche giorno fa il disegno di legge in materia di sicurezza è divenuto ufficialmente legge dello stato.

A seguire, sono scoppiate immediatamente polemiche furiose tra maggioranza e opposizione, tra chi annunciava l'arrivo di nuove leggi razziali e chi difendeva strenuamente delle disposizioni che avrebbero riportato l'ordine e la legalità in Italia e avrebbero debellato una volta per tutte la piaga dell'immigrazione clandestina. Una schizofrenica ridda di dichiarazioni, la maggior parte delle quali basate su una conoscenza assolutamente approssimativa del testo approvato. Perfino il Vaticano ci è caduto. Prima la reazione a caldo dell'Arcivescovo Agostino Marchetto, segretario del Pontificio Consiglio per la pastorale dei migranti, che bollava la legge come foriera di "molti dolori e difficoltà". Poi la smentita secca della Santa Sede che sostanzialmente scaricava Marchetto sostenendo che le sue erano solo considerazioni personali. Salvo poi ritrattare la ritrattazione con il cardinale Tettamanzi che parlava apertamente di "leggi discutibili che portano sofferenza", prendendosi del comunista da Calderoli.

Ma perfino la maggioranza, che questo testo ha ideato ed approvato, sembra avere le idee alquanto confuse in materia. Mentre Maroni saltellava giulivo, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega alla famiglia, Carlo Giovanardi, chiedeva una sanatoria immediata per tutte le colf e le badanti irregolari. Ancora non era entrata in vigore la legge e già qualcuno chiedeva che venisse aggirata. Rispondeva allora per le rime il felino Calderoli, ministro per la semplificazione, che rimandava al mittente la proposta: "Non se ne parla nemmeno. E' ora di finirla con il paese del "fatta la legge-trovato l'inganno"!". A dargli man forte, il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi, che invitava a non avere approcci "superficiali o semplificatori". A metterci una pietra sopra ci pensava Bonaiuti che, tirando in ballo addirittura un Patto Europeo, spiegava che "le nuove norme sulla sicurezza non incidono sulle persone che già sono in Italia perchè le norme penali riguardano solo il futuro e non sono retroattive. Non si può procedere ad alcun tipo di sanatoria generalizzata perchè ciò è vietato dal Patto Europeo per l'immigrazione e l'asilo, firmato dai Capi di Stato e di Governo al Vertice europeo dell'ottobre scorso".

A fugare infine ogni dubbio arrivavano le sempre rassicuranti dichiarazioni di Capezzone che spiegava come il problema posto da Giovanardi non esistesse nemmeno visto che, "come sanno tutti, un reato penale non è mai retroattivo. E quindi anche il reato penale di immigrazione clandestina non potrà certo applicarsi a chi oggi è in Italia e lavora come colf o badante, anche se il suo ingresso fu irregolare. Il Governo non si sogna di mettere in difficoltà colf e badanti".

Ma allora, chi ha ragione? Se il problema non sussiste, perchè Giovanardi l'ha sollevato? E soprattutto, se non sussiste, perchè Calderoli si è inalberato tanto? Domande che non troveranno mai una risposta.

Anche perchè, a rendere la situazione ancora più confusa, ci si sono messi pure gli house organ di partito. Il Giornale, che in questa vicenda è ovviamente l'unica voce attendibile visto che esprime esattamente la voce del governo, ieri diramava una nota della Redazione in cui, sulla falsariga del discorso di Capezzone, si specificava come il problema delle badanti fosse inesistente: il reato penale non è retroattivo e quindi non se parla nemmeno. Le badanti sono in una botte di ferro. Questa mattina però il Giornale era già più possibilista e ammetteva che, effettivamente, a leggere bene il testo della legge, le badanti un pizzico di preoccupazione potrebbero anche avercela, visto che il ddl punisce il solo fatto di essere presente illegalmente sul suolo italiano, indipendentemente da quando si è fatto ingresso. Come la mettiamo allora? Le circa cinquecentomila badanti irregolari in Italia potranno ancora portare a passeggio i nonni senza paura di essere denunciate o no? Nessuno sembra in grado di dirlo con certezza.

Ad alimentare le preoccupazioni ci ha pensato il ministro Ignazio La Russa che ha proposto una distinzione epistemologica tra "badanti" e "colf". Le prime sono indispensabili, le seconde un po' meno. Quindi il governo prima penserà a regolarizzare le badanti (quelle che cambiano i pannolini ai nonni, per intenderci) e poi, con calma, penserà alle colf (le domestiche, per intenderci). Frattini da par suo, continuando col distinguo e creando più di qualche brivido tra le colf, assicura che "nessuna badante andrà in galera". Recita il ministro: "Non è necessaria alcuna sanatoria perchè la legge penale non è retroattiva". Di che regolarizzazione stava parlando allora La Russa? Boh.

Sacconi, quello di prima, dopo aver chiacchierato con Gianni Letta, sembra aver cambiato versione ed è arrivato alla conclusione che è necessario "regolarizzare sì, ma con rigore". Qualcuno dovrebbe farlo incontrare con Frattini e Capezzone, così magari si mettono d'accordo. A tirare le somme interviene il sempre astuto Maurizio Gasparri che, senza andare troppo per il sottile tra colf e badanti, paventa uno stratagemma scaltrissimo: utilizzare il decreto sui flussi migratori per regolarizzare il loro status. Se non avete idea di cosa voglia dire, non preoccupatevi. Probabilmente non lo sa nemmeno lui.

Posto dunque il fatto che nessuno, nemmeno tra coloro che hanno scritto la legge, è in grado di spiegare cosa ne sarà di quelle cinquecentomila badanti, andiamo a far chiarezza entrando nel merito del testo. Il ddl è lungo la bellezza di 128 pagine, rigorosamente divise in due, per evidenziare le correzioni apportate di volta in volta, da Senato prima e Camera poi. Me le sono lette tutte. Fidatevi.

Il nodo della questione è il seguente: cosa significa che è entrato in vigore il reato di clandestinità?

La prima domanda che viene da porsi è: ma allora, l'altro ieri, prima che entrasse in vigore il ddl, era legale essere clandestino? Ovviamente no. Secondo la legge Turco-Napolitano prima e Bossi-Fini poi, se venivi beccato privo di documenti e del regolare permesso di soggiorno venivi prelevato e posto nei centri di permanenza, in cui l'autorità giudiziaria tentava di identificarti e capire da dove venivi. Se non ci riusciva, ti "intimava" (secondo la dizione della legge) di andartene. Ti dava cioè il famoso foglio-di-via. Chiaramente nessun clandestino era così scemo da prendere la cosa sul serio, stracciava il foglio e rimaneva illegalmente in Italia fino a successivo, inutile, controllo.

Cosa cambia ora con la nuova legge che debellerà la piaga della clandestinità? Praticamente niente. L'unica variazione è che il tempo massimo di permanenza all'interno dei centri di identificazione è dilatato a sei mesi. Cosa succederà se in quell'arco di tempo non si riuscirà ad identificare il soggetto? Nulla. Gli si intimerà di andarsene "entro cinque giorni". Quello non se ne andrà e rimarrà clandestino in Italia fino al successivo controllo. Come è sempre stato. E se invece il soggetto viene identificato e poi trovato recidivo? Rischia un pena detentiva fino a quattro anni. Il problema però è che la legge specifica che il clandestino recidivo può finire in carcere solo se si trova a risiedere illegalmente in Italia "senza un buon motivo". Cosa vuol dire? Non avere i soldi per prendere l'aereo e andarsene è un buon motivo? Evidentemente sì e quindi nessun clandestino si farà un solo giorno di carcere. Senza contare che, già di per sè, con tutte le attenuanti più i tre anni scontanti per condono, sarebbe praticamente impossibile per un clandestino recidivo metter piede in galera.

Ma allora: in cosa consiste questo reato di clandestinità? Innanzitutto bisogna distinguere tra due tipi differenti di reato. L'ingresso illegale in territorio italiano e la permanenza illegale. E' chiaro infatti che una persona può entrare regolarmente in Italia (con visto turistico) e poi permanere illegalmente oltre il tempo consentito. Anzi è proprio così che la maggior parte dei clandestini arriva in Italia. Non lo sono al momento dell'ingresso, ma lo diventano poi. Cosa stabilisce la legge in questi due casi? Beh, la legge, incredibilmente, non sembra fare distinzione. Infatti per entrambi i casi recita: "lo straniero che fa ingresso ovvero si intrattiene in territorio dello Stato" irregolarmente "è punito con l'ammenda da 5.000 a 10.000 euro".

Ora, capite bene che la distinzione tra "fare ingresso irregolarmente" e "intrattenersi irregolarmente" è teoricamente chiara, ma praticamente impossibile da determinare. Anzi, se il reato di immigrazione clandestina si risolvesse solo nell'ingresso irregolare, sarebbe qualcosa di assolutamente virtuale. O si sorprende il clandestino nel momento esatto in cui sta varcando il confine, con un piede di qua e uno di là, e allora non lo si mette di certo in galera, ma lo si risbatte semplicemente indietro o lo si sorprende appena un minuto dopo il suo ingresso e allora quello potrà sempre dire di essere entrato l'anno prima quando la legge non era ancora in vigore.

Ecco che a quel punto interverrà la seconda parte della legge: la permanenza irregolare sul territorio italiano. Il clandestino verrà processato per direttissima davanti al giudice di pace e, se è così furbo da presentarsi al processo, rischierà di prendere una multa fino a 10.000 euro. Che ovviamente non pagherà, non avendo di norma nemmeno i soldi per prendere l'aereo di ritorno in patria. Se invece non si presenterà al processo e farà perdere le sue tracce, la legge prevede che il processo si celebrerà lo stesso in contumacia. Con relativo spreco di tempo e denaro pubblico.

Dunque dove sono tutte queste misure repressive nei confronti dell'immigrazione clandestina? Non esistono. Anzi, ci sono, ma assomigliano tanto alle grida manzoniane: altisonanti, ma in pratica assolutamente inutili. A cosa si riduce il tanto famigerato reato di clandestinità? Allo spauracchio di una multa che non verrà mai pagata e, nei casi più gravi di recidività, di una possibile detenzione che mai verrà messa in atto. Le badanti allora hanno da stare tranquille? Possono dormire sonni più che tranquilli, visto che nemmeno i clandestini "pericolosi" avranno molto da temere. Che senso ha avuto allora sollevare un così grosso polverone? Bastava dirlo prima che era tutta una buffonata.

L'unico tangibile effetto di queste norme sarà quello di ingolfare ancora di più i meccanismi già pachidermici della giustizia italiana. I giudici di pace si vedranno le scrivanie piene di carte relative a processi a carico di ignoti clandestini che si concluderanno in un niente di fatto a discapito della già lentissima giustizia civile che registrerà una brusca frenata d'arresto.

Nel frattempo tiriamoci su di morale guardando il video di un commosso Berlusconi di fronte ai "respingimenti inumani" decisi dall'allora governo Prodi contro gli Albanesi.

Il video si intitola "Quando Silvio piangeva per gli immigrati". Sono sempre scenette esilaranti.

mercoledì 1 luglio 2009

Tra impotenza ed impudenza


Non so se avete notato, ma da quando si è votato per le Europee il Partito Democratico si è ammutolito del tutto. In campagna elettorale Franceschini ci aveva tentato a risollevare gli animi di una truppa disillusa, depressa, disorientata. Aveva alzato un po' la voce, aveva buttato lì qualche bella stoccata, aveva preso qualche cantonata (l'invito a Berlusconi per il 25 Aprile), ma almeno aveva suscitato qualche reazione scomposta dall'altra parte, che non fa mai male. Si era dimostrato apparentemente vivo. Piccoli segnali, per la verità. Giganteschi passi avanti, se confrontati con l'incomprensibile prudenza del predecessore, nonchè maestro, Walter Veltroni.

Come si sospettava, era tutto un bluff. Terminato lo spoglio, la cosiddetta opposizione è tornata al silenzio da oltretomba di veltroniana memoria, per cui il dissenso all'operato della maggioranza deve essere espresso in modo molto pacato, sereno, da galantuomini, in sordina, senza destare troppo rumore, senza che l'opinione pubblica se ne accorga. Come piace alla maggioranza, insomma. Nonostante lo sbraitare delirante del nostro capo del governo che vedeva dappertutto comunisti eversori, in combutta a livello mondiale per farlo cadere, a ben guardare pochissime sono state le dichiarazioni in tal senso della cosiddetta opposizione.

L'inchiesta di Bari è stata seguita con particolare attenzione dalla stampa, Corriere e Repubblica in primis, ma mai vi è stata una presa di posizione netta da parte del Partito Democratico. E sì che la portata dello scandalo era sotto gli occhi di tutti. Vi ricordate gli attacchi anche un po' arditi di Franceschini che, sulla scia delle foto di Berlusconi a Villa Certosa circondato da ninfe più o meno nude, chiedeva agli Italiani se avrebbero affidato l'educazione dei propri figli ad un tizio così? Erano solo delle foto, e nemmeno troppo spinte. Alla luce invece di un'indagine ufficiale avviata dall'autorità giudiziaria che indaga su un giro di prostituzione, appalti truccati, festini e cocaina, l'opposizione non ha fiatato. E continua a non proferire parola. Come mai?

La risposta si è avuta in questi giorni. Il Pd, come volevasi dimostrare, assomiglia sempre di meno ad un partito e sempre di più ad un carrozzone impotente. Un accozzaglia di "mal tra' insèm", come diremmo dalle nostre parti, un circo senza capo nè coda, schizofrenicamente dilaniato da incomprensibili personalismi, capricci, invidie, sgambetti reciproci. La verità è che Franceschini è stato messo lì dai Dalemiani perchè nessun altro voleva bruciarsi. E' stato speso perchè non aveva nulla da perdere. E proprio perchè non aveva, e non ha, nulla da perdere, ci ha preso gusto e adesso si vuole candidare per la guida del Pd a lungo termine. Non era questo il piano di D'Alema, Bersani e compagnia, che non aspettavano altro che la disfatta di Franceschini alle Europee per riprendersi in mano il partito. La disfatta non è arrivata, almeno non come se l'aspettavano. E ora hanno già dimenticato le possibili "scosse" e si sono messi d'impegno a farsi una guerra fratricida spietata.

Il paese è allo sbando, in mano a Berlusconi. E loro sono lì che passano il tempo ad azzuffarsi e rispolverarsi il trucco in vista delle prossime primarie. Sembrano tanti bambini deficienti che litigano per un giocattolo inutile. Assomigliano un po' ai capponi nelle mani di Renzo. Ieri la Serracchiani, il volto nuovo del PD e diventata famosa per il solo fatto di aver sparato a zero contro la dirigenza, ha rilasciato un'intervista a Repubblica in cui attaccava Bersani e D'Alema definendoli "vecchi" e "uomini dell'apparato" e sostenendo la candidatura di Franceschini, "molto più simpatico", a suo dire. In men che non si dica, le è piovuta addosso una sassaiola di attacchi più o meno livorosi, più o meno risentiti e indignati da parte di gente che si credeva dispersa da tempo, che non ha mai osato fiatare per denunciare le sconcerie berlusconiane, ma che si è dimostrata prontissima a scendere in campo in difesa dei propri leader storici. Si è messo in moto l'apparato. Una serie di invettive del tutto gratuite e spropositate. Non hanno mancato di dire la loro, nell'ordine, Gianni Pittella, Nicola Zingaretti, Piero Marrazzo, Marco Follini, Barbara Pollastrini, Enzo Carra, Roberto Giachetti. Un fuoco incrociato che non si vedeva da tempi immemori. Obiettivamente ridicolo, se si pensa al peso praticamente nullo che può avere la Serracchiani all'interno del partito.

Ma basta per avere il polso della situazione. Quale è stata la colpa della ragazzina dal faccino pulito? Quella di aver parlato di "innovazione", "ricambio", "aria fresca", "questione morale" e "conflitto di interessi". Addirittura. All'interno del Pd sono assolutamente terrorizzati da certe parole. E' come parlare di corda in casa dell'impiccato. Non le si tollera. La verità è che fino a quando questo partito rimarrà nelle mani del trio D'Alema-Fassino-Rutelli che sponsorizzano il "nuovo" Bersani, non andrà da nessuna parte. Non riescono a capirlo. Non vogliono farsene una ragione. Sono cadaveri che camminano e si ostinano a rimanere in sella. Non si accorgono che ormai l'elettorato non li segue più. L'elettorato vero, dinamico. Quello che ha voglia di cambiamento. E che ora si appoggia all'Idv, ora dà il voto alle sinistre più estreme o non vota del tutto. Stanno perdendo i pezzi e miopi come talpe perseverano in questo gioco al massacro. Alle primarie, se ci saranno, vincerà Bersani a mani basse. E il declino del Pd sarà inarrestabile.

Perchè Bersani, ha ragione la Serracchiani, rappresenta ancora una volta il vecchio. Bersani è nient'altro che un prodotto di D'Alema. E D'Alema rappresenta il conflitto di interessi. Rappresenta la degenerazione della questione morale. D'Alema rappresenta l'impotenza dell'opposizione. Un'opposizione che, anche volendo, non si può opporre a Berlusconi, perchè ha scheletri nell'armadio grandi uguali o persino peggiori. Come è pensabile ricostruire un'opposizione a Berlusconi partendo da D'Alema? Colui che ha aiutato fisicamente il cavaliere a rialzarsi nei momenti più disperati, che si è inventato la bicamerale, che ha tifato per i "furbetti del quartierino"? Come può un'opposizione così permettersi di puntare il dito contro Berlusconi per l'inchiesta di Bari, quando per un'inchiesta parallela sono indagati tutti i vertici del Pd della regione Puglia per lo scandalo degli appalti truccati nella sanità e Vendola ne ha già chiesto le dimissioni? Non è possibile. Più che un partito, una banda di impotenti. Se il nuovo è rappresentato da Bersani e Franceschini, auguri.

Dall'altra parte invece spadroneggia sempre più la banda degli impudenti. Se ne è avuta ulteriore dimostrazione oggi in Parlamento. Al Question Time, Antonio Di Pietro ha rivolto un'interrogazione al ministro della giustizia Angelino Alfano in merito alla cena segreta tra due giudici della corte Costituzionale e una delegazione del governo, alla luce dei fatti riportati dall'Espresso. A rispondere in aula non c'era ovviamente il diretto interessato, Alfano, che per altro aveva partecipato ai gozzovigli, ma uno dei tanti portavoce del governo, Elio Vito, che, attorniato da Bondi e dalla Gelmini, ha cercato di arrampicarsi sui vetri per cercare di minimizzare l'enormità della vicenda.

Tutto ciò che il governo, per bocca di Vito, è stato in grado di dire è che quella cena si è effettivamente svolta, ma 1) è avvenuta solamente nella prima metà di maggio, molto prima di quando la Consulta ha annunciato la data per la discussione della legittimità del Lodo Alfano e 2) l'argomento di conversazione non è stato assolutamente il Lodo Alfano, perchè trattavasi di cena conviviale tra amici di vecchia data. Meno male: se lo dice Vito, c'è da credergli.

Ora, che di fronte ad uno scandalo di proporzioni inaudite che vede due giudici costituzionali invitare a cena a casa loro i rappresentanti del governo per discutere verosimilmente di riforme costituzionali in materia di giustizia in modo privato e all'oscuro degli altri membri della Corte, il governo sappia proporre come giustificazioni solamente quelle due ridicole argomentazioni, rappresenta il livello di impudenza e di degenerazione raggiunto da questo esecutivo. Ci trattano come deficienti. E hanno ragione loro, visto che tanta impudenza non produce alcuna reazione. Avrebbero fatto meglio a tacere. Avrebbero fatto decisamente più bella figura. Di Pietro ha giustamente definito quella cena "carbonara e piduista". Non ci sono altri termini.

E di fronte allo scandalo di un governo eversivo che tenta di minare alle basi i pilastri della democrazia gozzovigliando con coloro che dovrebbero essere deputati al suo controllo (un po' come i maiali di Orwell), l'opposizione tace. La voce di esimi costituzionalisti che si dicono sconcertati dalla notizia della cena segreta cade nel vuoto. Di Pietro è l'unico che parla, che chiede chiaramente le dimissioni di quei giudici e anche del ministro della giustizia Alfano e che si prende insulti dal Bondi di turno che, durante l'interrogazione, gli urla "Vergogna! Vergogna!" e se ne va dall'aula tutto paonazzo in faccia. Hanno perso anche il senso del pudore. Sbracano. Non sanno che cos'è la vergogna e pretendono di insegnarla.

Come il giudice Mazzella, che non contento della figuraccia, non si dice per nulla pentito del suo operato, ma anzi rilancia e, da novello Leopardi, scrive di suo pugno una lettera "A Silvio". Più che una lettera, una confessione di colpevolezza. Ma nella foga, nemmeno si accorge di aggravare la sua posizione. Una lettera sconcertante. Lui che dovrebbe rappresentare l'autorità giudiziaria massima, garante della Carta Costituzionale, svincolata da ogni minimo sospetto. Chiama Berlusconi "caro Silvio", rivendica la liceità di quella cena, rivendica un'amicizia di lunga data con il premier senza accorgersi del mostruoso conflitto di interessi in cui sprofonda.

Una lettera che si scoprirà essere stata dettata dallo stesso premier Silvio Berlusconi. Pensate un po'.

Dice Mazzella: "Vederti in compagnia di persone a me altrettanto care e conversare tutti assieme in tranquilla amicizia non mi era sembrato un misfatto". E la musica del Mulino Bianco, magari, in sottofondo. Mazzella rivela incredibilmente che quella non è stata l'unica cena e che ce ne saranno altre a cui il caro Silvio è invitato fin da ora, "fino al momento in cui un nuovo totalitarismo malauguratamente dovesse privarci delle nostre libertà personali".

Ecco esemplificato il concetto di libertà per questa gente: fare esattamente ciò che gli pare al di là di ogni remora etica, morale o legale. E sono così convinti di essere nel giusto, così maledettamente convinti che libertà significhi quella roba lì, che non riescono proprio ad accettare che esitano dei limiti, se non legali, almeno etici alle loro azioni. Sono così abituati, così assuefatti a quello che Paolo Borsellino chiamava con disprezzo "il puzzo del compromesso morale", che non riescono a percepirne più nemmeno il fetido odore. E urlano al comunismo e al totalitarismo nel momento in cui qualcuno chiede di mettere un freno al loro agire incosciente. Delle due una: o sono personaggi assolutamente irresponsabili che non hanno la minima idea della delicatezza della propria posizione negli equilibri preziosi di una democrazia e dovrebbero quindi essere rimossi al più presto prima che facciano altri danni o agiscono in modo cosciente e spudoratamente eversivo e quindi, a maggior ragione, dovrebbero essere immediatamente rimossi. Non c'è via d'uscita.

L'impudente Mazzella e il taciturno Napolitano (che ancora non si è espresso sulla questione) devono essere costretti a dimettersi. Con la loro condotta scriteriata hanno compromesso l'imparzialità del massimo organo giuridico italiano e, proprio perchè non sembrano assolutamente esserne pentiti e non comprendere la gravità delle loro azioni, devono essere costretti a fare un passo indietro.

Perchè Mazzella nemmeno se ne rende conto, ma, tentando di discolparsi, getta fango su tutta la Consulta. Dice che il fatto che membri della Corte Costituzionale invitino a cena importanti uomini delle Istituzioni è prassi ormai consolidata e sarebbe in grado anche di fare centinaia di nomi in proposito. Nella sua finta ingenuità lancia delle bombe che gettano discredito sul massimo organo della magistratura italiana.

I giudici della Corte Costituzionale sono in tutto quindici. Dove sono gli altri tredici? Non si sentono offesi da certe parole? Perchè non parlano? Perchè non reagiscono? Devo dedurne che ciò che Mazzella rivela sia vero? Il Presidente Francesco Amirante non ha nulla da dire? Non si sente in dovere di difendere l'onorabilità dell'organismo che egli presiede? Perchè non parla? Perchè non reagisce? Devo dedurne che egli ritenga assolutamente normale quello che è successo?

E il nostro caro capo dello stato, Giorgo Napolitano, sempre pronto a spendere qualche parolina di troppo se c'è da bacchettare i giudici "troppo protagonisti" (riferendosi esplicitamente a De Magistris e alla procura di Salerno, senza però farne i nomi) è proprio sicuro che non abbia nemmeno un commento da fare? Nemmeno un monito pacato? Di quelli che tanto piacciono a lui?

Parli, signor Napolitano! Parli! Abbia un sussulto vitale! E inviti i due giudici a fare un passo indietro. Non è certo lei che può chiederne le dimissioni, ma un segnale, una battuta, una frase potrebbe dire molto. Potrebbe rovesciare gli equilibri. O devo dedurne che le sta bene questo clima di sospetti? E' stato così solerte a chiedere "una tregua alle polemiche" in occasione del G8. Quali polemiche, signor presidente? Ancora una volta, mai una parola chiara. Le polemiche dei giornali che fanno solo gossip, come direbbe Minzolini? E' questo che intendeva dire? Perchè lancia moniti generici? Perchè non ha il coraggio di fare nomi e cognomi? E perchè, quando ci sono in ballo faccende molto più preoccupanti di escort e veline, tace? Devo dedurne che anche lei è sotto ricatto da parte del cavaliere di Arcore?

In uno dei suoi ultimi moniti insipidi, che vogliono dire tutto e niente, che ognuno interpreta come meglio crede proprio perchè privi di chiarezza e di coraggio, lei diceva che "la crisi della politica non significa crisi della democrazia". Cosa voleva dire? Quale sottile sofismo si nascondeva sotto un cotanto giro di parole? Perchè, se non se ne è accorto, questo ultimo scandalo l'ha smentita spudoratamente. La crisi della politica si manifesta in forme più o meno degenerate che vanno ad intaccare nel profondo i gangli vitali della democrazia. La cena "carbonara e piduista" tra pezzi dello stato e pezzi della Consulta è lì a dimostrarlo. E lei continua a tacere. Spero sia solo per l'imbarazzo che prova.

E infine. Perchè l'opposizione tace? Perchè?

Ah già. Sono troppo impegnati a fare il tiro al piccione con la Serracchiani. Aiuto.