Ti ho sognato, l’altra notte. Se non mi sbaglio, credo sia la prima volta che mi capita. Eri seduto sul tuo lettino d’ospedale, bianco. Tu, col tuo camice bianco. Nonostante l’ictus che ti aveva colpito qualche giorno prima e che ti aveva lasciato semiparalizzato, eri seduto e cercavi pure di parlare. Ma, per quanto ti sforzassi, dalla tua bocca, immobile, usciva solo un borbottio indistinto. Ne eri seccato, maledettamente seccato. E io credo, a un certo punto, di aver persino intuito quello che volevi dirmi. Ma ora, purtroppo, non me lo ricordo. Ricordo solo, nel sogno, di essermi voltato e di aver scambiato un cenno d’intesa con mio fratello, che stava in piedi, dietro di te, sorridente, nel giorno del suo compleanno: Vedi, il nonno si sta riprendendo.
Ora che sei morto, provo a buttare giù queste due righe. Ti sembrerà egoista, ma lo faccio più per me, che per te. Per alleviare, se possibile, questo dolore che ancora non so come sfogare. Che è cresciuto, in questi dieci giorni di agonia, più acuto e più irreale, per qualcosa che, prima o poi (dentro di me lo sapevo) doveva succedere, ma che non poteva succedere, ora. Almeno non così. Sarà la distanza, sarà l’oceano che c’è di mezzo, ma a me ancora non sembra vero. E se anche la mente tenta di convincermi che è finita, io proprio non riesco ad immaginarti, morto.
Tu sei quello che, dopo esserti ripreso da un primo, lieve ictus, avvisaglia di quello fatale che ti avrebbe colpito solo un paio di giorni dopo, al telefono, ancora confuso, chiedevi a me come stavo. A me. Tu che eri appena uscito dall’ospedale chiedevi a me come stavo. Quelle sono state le ultime parole che abbiamo scambiato. E io non sono nemmeno riuscito a chiedere a te, come stavi. Perché l’unica cosa che pareva ti importasse sapere era: Federico, come stai?
Quando ripenso a questi ultimi momenti, non so perché, mi torna alla mente, chiara, un’immagine che mi è rimasta impressa da tempo, che ho letto per la prima volta in un libro a me particolarmente caro. Sono andato a recuperarla. Fa così:“A me m'ha sempre colpito questa faccenda dei quadri. Stanno su per anni, poi senza che accada nulla, ma nulla dico, fran, giù, cadono. Stanno lì attaccati al chiodo, nessuno gli fa niente, ma loro a un certo punto, fran, cadono giù, come sassi. Nel silenzio più assoluto, con tutto immobile intorno, non una mosca che vola, e loro, fran. Non c'é una ragione. Perché proprio in quell'istante? Non si sa. Fran. (...) Non si capisce. E' una di quelle cose che è meglio che non ci pensi, se no ci esci matto”. Ecco, tu eri proprio come uno di quei quadri, antichi, appesi al loro posto, sempre là. E potevano passare stagioni, potevano cambiare proprietari, poteva essere ristrutturata tutta la casa da cima a fondo, ma alla fine ti si ritrovava sempre appeso, lì, alla tua parete. E nessuno si sarebbe mai potuto immaginare la casa senza quel quadro. Era una cosa semplicemente inconcepibile. Ma ora, all’improvviso, mi sei crollato. Fran. E io mi ritrovo qui a guardarmi attorno, a cercare di mettere assieme i pezzi per dar senso ad una cosa che, di senso, ne ha veramente poco.
Sei andato a morire lontano da casa, ironia della sorte, il primo giorno di vacanza al mare. Un posto che ti piaceva particolarmente. Dove, esattamente quattro anni fa, abbiamo visto insieme, davanti ad un maxischermo, l’Italia schiantare la Germania 2-0 e qualificarsi per la finale che ne avrebbe segnato il trionfo. Proprio come nel lontano ’82, quando, mi raccontavi sempre, tenendomi in braccio, mi indicavi un piccolo televisore in bianco e nero, e io che avevo due anni, insieme a te, gridavo Goooal ai gol di Paolo Rossi. Sei andato a morire lontano da casa, lontano dalla tua amata Monza, ironia della sorte, come se non volessi che la tua città ti vedesse in quelle condizioni. Sei andato a morire al mare, a Venezia, la città dei tuoi genitori, piena di ricordi d’infanzia. E forse è giusto così. Venezia. Quando sentivi quel nome, ti si illuminavano gli occhi, e sempre, tutte le volte, mi raccontavi dei tuoi cugini, che dal balcone della loro casa nel sestiere di Cannaregio giocavano a tuffarsi direttamente in acqua dal secondo piano.
Quando me ne sono andato a dicembre, ti ho regalato un libro, con dentro una piccola dedica che diceva: Buon Natale, nonno, ci vediamo ad agosto, vedrai che otto mesi passano in fretta. Purtroppo mi sbagliavo. Otto mesi sono passati, ma non in fretta abbastanza. Mi hai fregato sul filo di lana, quando ormai avevo già pronte le valigie per venirti a trovare. So perfettamente quanto fossi affezionato a me e non riesco ad immaginare la tristezza che hai provato quel giorno che mi hai visto andar via. Anche se non l’hai mai fatta trapelare, nemmeno per un attimo. Hai voluto che ti svegliassi nel cuore della notte, quella notte, per potermi salutare un’ultima volta, prima che mi recassi all’aeroporto. E ogni volta che parlavamo su Skype, mi aggiornavi sul numero di giorni che mancavano al mio ritorno. Stavi facendo il countdown, mi dicevi. Ma il countdown si è interrotto sul più bello, improvvisamente, senza una ragione.
Perché davvero tu eri una delle persone più dolci e più buone che io abbia conosciuto in vita mia. E ora posso dirlo seriamente, senza retorica. Ferocemente attaccato alla vita, riuscivi sempre a scorgere il lato positivo delle cose. La tua era una tattica disarmante nella sua semplicità: vedrai che la prossima volta andrà meglio, mi dicevi. Era questa la tua filosofia di vita. Un ottimismo mai eccessivo, anzi testardamente ricercato. E avevi ragione tu. Una straordinaria forza d’animo che ti ha fatto sopravvivere, incredibilmente, per altri quattordici anni da quel giorno maledetto in cui hai perso la persona a te più cara. Quel giorno se ne era andata metà della tua vita, ma con la restante metà, nonno, sei riuscito a fare miracoli.
Ora che faccio così fatica a rimettere a posto le idee, mi si sovrappongono, impazzite, le diapositive di trent’anni passati insieme. Non so perché, ma ti vedo, settantenne, intento a giocare a calcio inseme a me e mio fratello nella cameretta, troppo piccola per non combinare danni con una pallonata maldestra. Ti vedo, ottantenne, correre (sì, correre) in un prato dinanzi alla Mole Antonelliana, a rincorrere non mi ricordo più che cosa. Ti vedo seduto in macchina, nella mitica Talbot rossa, ad aspettarmi all’uscita da scuola, subito dopo il passaggio a livello, quando ancora non avevano costruito il sottopassaggio, per farmi risparmiare dieci minuti di strada a piedi con lo zaino pesante. Ti vedo, curvo sul balcone della casa di Calimero, a raccogliere un piccolo merlo, caduto, con l’ala spezzata: chissà perché, l’avevamo chiamato Luigino. Ti vedo, novantenne, passeggiare, ingobbito ma sicuro, tra i pini di Milano Marittima con il Corriere e la Gazzetta in mano. Ti vedo seduto a un tavolo del Big Bar, anzi no, del Vip, come lo chiamavi tu, con cappuccino e brioche. Perchè non c’è niente di meglio al mondo del rito del caffè, da consumare “sedente, bollente e per neinte”. Ti vedo imprecare contro la vecchia Ford verde, quella che usavi per portarmi all’asilo, ferma, senz’acqua, in salita, sotto il sole cocente dei sentieri manzoniani della Val Sassina. Ti vedo, lo scorso anno, toccare la coda del leone di Barzio, perchè se gli tocchi la coda significa che ci tornerai un’altra volta. Ti vedo, novantaquattrenne, festeggiare il tuo compleanno, davanti ad una tavolata enorme, mostrando, come regalo, una maglietta dell’Inter con su scritto: Nino. Tu che dell’Inter, in fin dei conti, non te ne è mai fregato nulla, che la tifavi solo perché la tifiamo io e mio fratello. Che il tuo vero amore è sempre stato il Monza. Quel Monza che mai, mai una volta nella vita, ti ha regalato l’emozione di venire in serie A.
Perdonami, ma è così che ti ricorderò. Perché agli occhi di un bambino, i nonni sono quei personaggi mitologici, che nascono vecchi e muoiono vecchissimi. E tu, vecchissimo lo eri. Novantasei anni suonati, quasi novantasette. Ma solo all’anagrafe. Perchè, con la tua salute straripante e la tua lucidità, facevi invidia a tutti. E te la ridevi sotto i baffi quando i dottori, guardando impressionati i tuoi esami del sangue, ti dicevano che avevi tutti i valori in regola, molto meglio di un ragazzino, e ti stringevano la mano e le infermiere ti facevano i complimenti. E allora novantacinque, novantasei, novantasette. Che differenza poteva fare un anno in più o un anno in meno? Certo, il tempo ti aveva incurvato, ti aveva rallentato il passo, ma la mente, quella no. Quella era rimasta intatta, precisa, meticolosa. Mai ho visto una persona della tua età ragionare in modo così attento e profondo. E io lo so che, proprio per questo, ci prendevi gusto, molte volte, a fare il finto tonto. A far finta di non aver capito. A storpiare gli accenti delle parole (ah, quanto ti piaceva!) perché, se non esiste una regola, allora ognuno può scegliere di mettere l’accento dove gli pare. Con quel bonario sadismo che si può permettere solo chi ormai vive la vita in modo disinteressato, e che fa ammattire chi è troppo indaffarato a vivere per capire veramente di stare vivendo.
Allora, già che ci sono, per quanto vale, voglio chiederti scusa. Scusa per tutte quelle volte che, dentro di me, perdevo la pazienza. Ora capisco, anche se forse è troppo tardi, che tu avevi ragione, e io torto marcio.
E sono sicuro che, in questi interminabili dieci giorni di agonia, tu abbia fatto lo stesso, intraprendendo un balletto terribile con la Morte. Me la immagino, Lei che ti chiamava, che ti trascinava e tu che ti defilavi, fischiettavi, guardavi dall’altra parte e facevi finta di niente: chi? Io? Poi, alla fine, ovviamente, ha vinto Lei. Ma gliel’hai fatta sudare, nonno.
E allora io ti prego, Signore, prendilo tra le tue braccia, ma fallo delicatamente, perché è molto fragile, non vorrei che si rompesse. E poi dagli coraggio, perché chissà quanto è spaventato: volare in cielo, pensa un po’, lui, fifone com’era, che non ha mai voluto mettere piede su un aereo in vita sua. E riservagli, ti prego, un posticino, accanto a nonna Sandra. Finalmente la incontrerà di nuovo, e sarà la persona più felice del mondo. Di questo sono sicuro: da oggi ho un Angelo in più in Paradiso su cui contare.
Solo una cosa ancora, Signore: spero me la concederai. Dopo tutto non mi sembra una richiesta tanto azzardata. Il giorno che il Monza, perchè prima o poi dovrà succedere, verrà in serie A, ti chiedo di poter fare un strappo alla regola. Concedigli un giorno di permesso, ed io e lui, insieme, ci metteremo a tifare come ossessi dalla curva del Brianteo. E io lo so, sarò la persona più felice del mondo.