lunedì 8 marzo 2010

La democrazia interpretata


Dopo tanto tempo in cui mi sono dedicato ad altro, torno a scrivere. Avevo deciso di utilizzare quel poco di tempo libero che ho in questo periodo per attendere a cose “più importanti” della becera politica italiana. Avevo deciso di abbandonare momentaneamente l'impegno del blog personale per dare una mano a Salvatore Borsellino e portare avanti il suo di sito insieme ad un piccolo gruppo di altri ragazzi straordinari. E così ho fatto e continuerò a fare.

Oggi però farò uno strappo alla regola perché le notizie che mi giungono qui in America dall'Italia, nonostante la lontananza e il fuso orario, sono qualcosa che umilia profondamente la coscienza civile di quei cittadini onesti che hanno il torto di credere ancora nelle istituzioni del paese in cui sono nati e vivono. E' successo qualcosa di profondamente “italiano”, nel senso più classico e stereotipato del termine. E' successo che un “pasticciaccio” dai contorni goldoniani ha avuto il potere di mettere a nudo la necrosi della democrazia italiana. Una necrosi che, da tempo, chi ha gli occhi per vedere, vede nitidamente. Ma che ora si manifesta in tutta la sua indecenza.

E' nato tutto da un panino. Un innocuo panino che ha ritardato la consegna delle firme del Pdl nel Lazio. Una scena “fantozziana”, con il delegato alla consegna che, spinto da un'impellente quanto incomprensibile fame ferina e salivazione da competizione, veniva fermato sulla porta con il boccone ancora in gola, le briciole del pane tutte sparse sulla giacca e gli scatoloni con le firme tragicamente adagiate sul piazzale di fronte al Tribunale. Tempo scaduto. Cosa sia passato nella testa (ma soprattutto nello stomaco) del poveretto che, come ho saputo da fonti che rimarranno rigorosamente anonime, è stato crocifisso in sala mensa ed esposto al pubblico ludibrio, non sarà mai dato sapere. Aveva davvero ceduto ai succhi gastrici o aveva cercato di cambiare i nomi dei candidati all'ultimo momento? Non lo sapremo mai. Ma, a questo punto, non ha nemmeno alcun interesse saperlo. Rimane giusto la compassione per un caso umano, che si è giocato faccia, lavoro e carriera per un panino alla mortadella.

E qui termina la farsa tipicamente italiana. L'inno all'approssimazione e alla “arruffoneria” che purtroppo ci distingue in tutto il mondo. Tutto il resto è un precipitare incontrollabile di eventi. Ricorsi e contro-ricorsi respinti. La lista di Formigoni anch'essa esclusa a sorpresa. Le firme sono state consegnate in tempo, ma non sono sufficienti. Timbri mancanti, certificazioni illeggibili. Fuori il principale candidato alla regione Lombardia, da 15 anni presidente incontrastato. Scoppia la bufera, dichiarazioni deliranti, c'è chi vuole scendere in piazza, chi attacca i giudici comunisti, chi grida al golpe, chi reclama il diritto al voto, chi denuncia l'ottusità di una giustizia che guarda i cavilli e tralascia la sostanza. Berlusconi annuncia una grande manifestazione popolare per il diritto al voto. Anche se non si capisce bene contro chi vorrebbe protestare (i giudici comunisti? il suo delegato beccato col panino in bocca? la legge che il suo partito ha votato? i timbri difettosi? la costituzione bolscevica?), i giornali riprendono le sue esternazioni. E monta la polemica. Si solleva il dibattito: Polverini sì, Polverini no, Formigoni sì, Formigoni no. Come se fosse una questione di opinioni o di sondaggi, non di regole.

La data delle elezioni si avvicina paurosamente e le corti d'Appello di Roma e di Milano continuano a bocciare i ricorsi. Rimane solo il Tar come unico appiglio. Troppo poco. Non si può rischiare. Berlusconi gioca l'ultima carta possibile. Un azzardo che nemmeno lui sa bene come gestire. Nemmeno lui che è riuscito negli anni a farsi approvare in serie dal Parlamento leggi su misura in una corsa forsennata contro il tempo per bloccare i suoi processi prima che arrivassero a sentenza. Butta lì la minaccia di un decreto legge. Un decreto legge che stabilisce che il suo partito è più uguale degli altri. Nel mezzo della campagna elettorale. Una campagna elettorale dove, per assicurare la massima par condicio possibile ed immaginabile, la Rai, per dire, ha avuto la grandiosa trovata di zittire ogni voce in circolazione. Siccome non si riusciva ad assicurare un pari trattamento ai partiti nei programmi di informazione politica si è preferito chiuderli del tutto. Giusto per non sbagliare. Poi si sono dimenticati di oscurare Minzolini, tanto per fare un nome, ma questa è un'altra storia. E forse avevano ragione loro. Quella non è informazione. Ecco, in questo sistema delicatissimo di equilibri, arriva come un bisonte il presidente del consiglio, che butta all'aria il tavolo e minaccia di farsi un decreto legge ad hoc per legalizzare l'illegalità. Una cosa che non sta né in cielo né in terra. E infatti non ci crede nemmeno lui. E' una sparata che ha più il tono di un appello disperato a chi di dovere: fate qualcosa o io qui pianto un casino. Insorge l'opposizione. Bersani è categorico. L'idea di un dl è qualcosa di aberrante. Se ne discute. L'idea di cambiare la legge elettorale in corso è qualcosa di palesemente anti-costituzionale. Non c'è alcuna possibilità che un discorso del genere venga preso in considerazione. Berlusconi fa marcia in dietro. Bluffa. Non c'è in programma nessun decreto di legge. Vuole sondare il terreno. Aspetta un segnale.

E il segnale, come sempre, arriva. Non dall'opposizione, incredibilmente ferma sulle sue posizioni. No. Questa volta a salvare Berlusconi ci pensa direttamente il Capo dello Stato, il garante della Carta Costituzionale. Fa sapere dall'estero di essere molto preoccupato per il “pasticcio” che si è venuto a creare. Dice di non voler essere tirato in ballo in qualcosa in cui non può avere voce in capitolo. Ma, sotto sotto, lo staff del Quirinale inizia una febbrile trattativa con lo staff di Palazzo Chigi. Bisogna arrivare ad un accordo. Napolitano non firmerà mai un decreto legge che cambi la legge elettorale. Il tradimento alla Costituzione sarebbe troppo palese. Su questo fronte non ci sono margini per trattare. Ma non si può nemmeno escludere il Pdl dalla corsa in Lazio e Lombardia. E allora. Allora ci sarebbe un modo. Se voi riuscite a cambiare la legge senza cambiarla, magari con un decreto “interpretativo” che apparentemente non viola la Costituzione e allo stesso tempo vi consente di partecipare alla tornata elettorale, allora bene, io vi firmo il decreto senza problemi. E' un suggerimento geniale. Cosa c'è di meglio che scrivere un decreto per “interpretare al meglio” la legge corrente? Niente cambiamenti. Niente stravolgimenti. Solo una ovvia, semplice e doverosa “interpretazione”. Perché, così com'è, la legge non si capisce molto bene. E' un po' ambigua.

Per esempio, quando dice che il termine della scadenza per la consegna delle firme nel Tribunale competente è mezzogiorno. Beh, è troppo generico. E' una legge scritta coi piedi. Cosa succede se io ci entro con le firme e poi, che ne so, mi viene fame e mi viene voglia di farmi un panino? E' possibile in uno stato di diritto che mi venga privato il diritto di soddisfare i miei bisogni primari, tra cui c'è quello di nutrirmi? No, ovviamente. E quindi la norma deve essere così interpretata: “il rispetto dei termini orari di presentazione delle liste si considera assolto quando, entro gli stessi, i delegati incaricati della presentazione delle liste, muniti della prescritta documentazione, abbiano fatto ingresso nei locali del Tribunale”. Chissenefrega se poi si sono dimenticati di consegnarle, se ne sono andati e non han fatto più ritorno. Loro c'erano entrati in Tribunale, anche solo per andare al cesso, e questo basta.

Oppure, quando la legge dice che le firme devono essere certificate e il timbro dell'autorità certificante deve essere ben leggibile. Beh, è troppo cavillosa. Che sarà mai un timbro illeggibile? Se non è leggibile, lo si renderà leggibile. Che sarà mai un'autorizzazione non autorizzata? Se non è autorizzata, si autorizzerà. E quindi la norma deve essere così interpretata: “le firme si considerano valide anche se l'autenticazione non risulti corredata da tutti gli elementi richiesti dall'articolo 21, comma 2, ultima parte, del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, purché tali dati siano comunque desumibili in modo univoco da altri elementi presenti nella documentazione prodotta. In particolare, la regolarità della autenticazione delle firme non è comunque inficiata dalla presenza di una irregolarità meramente formale quale la mancanza o la non leggibilità del timbro della autorità autenticante, dell'indicazione del luogo di autenticazione, nonché dell'indicazione della qualificazione dell'autorità autenticante, purché autorizzata”. Tradotto: le firme sono valide anche se non sono valide. Ecco, questo è molto più ragionevole e molto più chiaro. Direi: l'interpretazione oggettivamente più corretta della legge.

Lo stillicidio dura una giornata intera. Decreto legge sì, decreto legge no. Lo fanno, non lo fanno. Consiglio dei ministri sì, consiglio dei ministri no. Lo faranno, non lo faranno. Poi, a tarda sera, Berlusconi rompe gli indugi e convoca tutti a Palazzo Chigi. Ci mettono 35 minuti a scriverlo, questo decreto legge di tre paginette in quattro punti. Anzi, 35 minuti è quanto è durato in totale il consiglio dei ministri. Tolti i convenevoli, la stesura del testo ha occupato dai 10 ai 15 minuti. Poi i ministri della Repubblica italiana in nome del popolo italiano si sono alzati in piedi soddisfatti, hanno tirato un sospiro di sollievo per il buon lavoro fatto e hanno presentato il conto a Napolitano. Il quale, si dice, sempre da fonti anonime che non rivelerò, stesse aspettando con impazienza fuori dalla porta con la penna in mano. Chi l'ha visto racconta di un Presidente pallido e sudato, teso all'inverosimile, ansioso di apporre l'augusta firma. Ha tentato persino di entrare nel bel mezzo del consiglio dei ministri per assicurarsi che tutto stesse procedendo in modo spedito, ma le guardie l'hanno fermato e l'hanno calmato. Non c'è bisogno Presidente, vedrà che se la sbrigano in un attimo. Abbia un po' di pazienza. E allora voi dovete immaginare la sua faccia quando la porta finalmente si è aperta, dopo un'attesa infinita di 35 minuti, ed è apparso Angelino Alfano con il volto radioso, l'occhio leggermente strabico dalla fatica e il decreto legge fresco di stampa tra le mani. Un capolavoro d'arte italiana. Nel vero senso della parola. Un decreto legge che riesce a stravolgere una legge senza cambiarla. Un colpo di classe. Degno della più grande tradizione del genio italico.

Ci ha messo un nanosecondo, il Presidente, a firmarlo in nome del popolo italiano. Si è avventato con furia sul povero Angelino, che s'è preso pure un po' di spavento, gli ha strappato di mano il decreto legge e l'ha firmato lì su due piedi, appoggiando il foglio sulle spalle capienti di Bondi. Poi, distrutto dalla tensione, si è accasciato al suolo, disfatto ma soddisfatto. Era quasi mezzanotte. Non aveva mai tirato certe ore, si capisce.

Poi se n'è andato a dormire e la mattina seguente, quando ha aperto la posta elettronica del Quirinale, si è trovato la casella intasata di insulti. S'è preso un colpo. Ma come? Invece di ringraziarlo per aver brillantemente battuto ogni record di apposizione di firma a decreto legge “ad partitum”, nuova competizione olimpica appena introdotta in suo onore, c'era qualche birichino che si divertiva a dissentire. E allora dovete immaginarlo, Giorgio, in vestaglia, che proprio gli girano i cinque minuti, prende carta e penna e decide di rispondere seccato. Per dare una lezione di democrazia a questi ignoranti e trogloditi che non sanno apprezzare l'equilibrio del più saggio capo dello stato degli ultimi sessantanni. Così come aveva fatto con quel poveretto che per strada gli aveva chiesto gentilmente di non firmare il lodo Alfano. O forse era qualche altra legge porcata. Ma non importa. Lui se l'era presa come non mai. Si era raddrizzato tutto indispettito e aveva tenuto al malcapitato una lezione di diritto costituzionale. Che s'ha dda fa pe' campà. E poi se n'era andato scuro in volto. Ma gli aveva proprio rovinato la giornata, quella cosa. E adesso di nuovo. Altre mail di dissenso. No, questa non passa. Ci vuole una risposta ufficiale sul sito ufficiale del Quirinale. Come fanno i giovani. Che chattano su internet.

E ora voglio tornare serio per un attimo. Perché qui c'è proprio poco da scherzare. Il testo della risposta data da Giorgio Napolitano rimarrà come una ferita nera nella storia della Repubblica italiana. Perché è una risposta assolutamente inaccettabile per chi ha come primo dovere quello di essere il massimo rappresentante della Costituzione, ovvero il garante della legalità e dello stato di diritto. E' una risposta che certifica nero su bianco l'alto tradimento compiuto dal Capo dello Stato. Un alto tradimento che è ancora più indecente perché consumato nell'assoluta convinzione (questo glielo concedo) di essere dalla parte del giusto, di star davvero facendo il bene del paese.

Prima di iniziare la sua lettera, Napolitano cita due email che gli sono arrivate. Due email che dovrebbero rappresentante gli opposti stati d'animo, egualmente degni di considerazione, di due esemplari di cittadini. Quello che chiede al presidente di non firmare perché non venga calpestata la legge e quello che gli chiede invece di firmare perché non venga negato il diritto di voto. Napolitano le posta in incipit, come a dire: vedete tra quali due opposte necessità apparentemente inconciliabili ho dovuto trovare una mediazione? Peccato che il presidente non si accorga che la lettera della signora M. Cristina Varenna che chiede “di fare tutto quello che lei può per lasciarci la possibilità di votare in Lombardia. Se così non fosse, sarebbe un grave attentato al diritto di voto” è indirizzata al destinatario sbagliato. Ciò che ha attentato al diritto di voto della signora Varenna non è stato nessun mezzuccio sporco dell'opposizione, non è nessun giudice comunista: è stata solamente l'insipienza e la dabbenaggine dei suoi rappresentanti politici.

Un presidente della Repubblica serio avrebbe dovuto semplicemente rispondere alla signora con un paio di righe: “Cara signora, io non ci posso fare niente. Se la prenda con chi pretende di rappresentarla politicamente, ma non riesce nemmeno a mettere assieme un numero congruo di firme valide. Cordiali saluti”. E invece no. Napolitano accoglie l'appello disperato della signora Varenna e spiega: “Erano in gioco due interessi o "beni" entrambi meritevoli di tutela: il rispetto delle norme e delle procedure previste dalla legge e il diritto dei cittadini di scegliere col voto tra programmi e schieramenti alternativi”.

E no, caro Napolitano. Questa è disonestà intellettuale. Nessuno ha mai negato a nessuno il diritto a votare. Tutti i vari partiti politici sono stati messi nelle condizioni di partecipare alle elezioni. Tutti hanno avuto il tempo necessario per raccogliere tutte le firme possibili e immaginabili. Poi se qualcuno, non avendo rispettato le regole, è stato giustamente squalificato dalla competizione, questa è un'altra storia. Come dire: sono passato col rosso andando al lavoro perché ero in ritardo. Sono in gioco due interessi entrambi meritevoli di tutela: il rispetto delle norme del codice della strada e il diritto dei cittadini di andare a lavorare. Oppure: sono stato bocciato all'esame, perché invece di studiare sono andato a fare la settimana bianca. Sono in gioco due interessi entrambi meritevoli di tutela: il rispetto delle norme scolastiche e il diritto dei cittadini a prendere un periodo di ferie. Oppure: ho accoltellato il mio vicino perché ascoltava la televisione a volume troppo alto. Sono in gioco due interessi entrambi meritevoli di tutela: il rispetto delle norme del codice penale e il diritto dei cittadini a dormire senza essere disturbati.

Ma sicuramente il Presidente non sarebbe in accordo con questi esempi paradossali (paradossali fino a un certo punto). Si inalbererebbe e mi rinfaccerebbe di essere un ignorante del diritto che non ha capito niente. Assolutamente niente. Come ha fatto con quel cittadino per la strada. Perché questo è un caso eccezionale. Stava per essere esclusa dalla competizione elettorale “la lista del principale partito di governo”! Capito? Il principale partito! E questo, dice il Presidente, non era “sostenibile”. Mi sono soffermato a lungo per cercare di comprendere cosa intendesse Napolitano con questo termine oscuro, “sostenibile”. E me lo sono immaginato mentre tentava di trovarne uno che potesse andare. Non è “possibile”, “pensabile”, “immaginabile”, “accettabile”, “ammissibile”, “proponibile”. No. Troppo sfacciato. Devo trovare un termine più soave. Un termine ambiguo, che si presti a varie interpretazioni, o ancora meglio, uno che non vuol dire niente, ma che mi permette di concludere la frase senza dare troppo nell'occhio. Sostenibile. Chissà da dove gli è venuto fuori. Perché “sostenibile”, davvero, in quella farse, proprio non c'entra. “Sostenibile” nel senso che non si poteva sostenere, ovvero asserire, affermare? No. Non ha senso. “Sostenibile” nel senso che non si poteva sostenere, ovvero sorreggere, sopportare? Mah. Con uno sforzo d'immaginazione, forse. “Sostenibile” nel senso che non si poteva sostenere, ovvero, avallare, appoggiare? Boh. In ogni caso, è confortante sapere che la decisione di escludere il principale partito politico di governo, anche se a norma di legge, non era “sostenibile”. E tanto basta. Sempre una parola chiara, quando serve. Come è confortante sapere che il Capo dello Stato, novello Don Abbondio, quando c'è da scegliere tra il salvaguardare il rispetto della legge e il tutelare i diritti del più forte (il principale partito di governo), scelga, senza farsi troppi problemi, di far cartastraccia della legge e di dar ragione al più forte.

Io credo che Napolitano nemmeno si sia reso conto della gravità delle sue parole, prima ancora che del suo comportamento. Perché qui non si tratta di criticare il fatto che lui abbia firmato con la velocità di un segugio un decreto legge vergognoso presentato dal principale partito di governo per favorire il principale partito di governo. No, questo non c'entra. Anzi, è un dettaglio perfino trascurabile. Ciò che è gravissimo e che rende, secondo me, le parole di Napolitano eversive e, ripeto, un atto di alto tradimento del sistema democratico che lui stesso invece dovrebbe rappresentare, è il fatto che Napolitano abbia confessato senza alcun timore di aver appoggiato, suggerito, favorito e fortemente sostenuto questo decreto legge “interpretativo”. Questo sì è stato “sostenibile”. Dice senza alcun pudore: “I tempi si erano a tal punto ristretti - dopo i già intervenuti pronunciamenti delle Corti di appello di Roma e Milano - che quel provvedimento non poteva che essere un decreto legge”. Tradotto: bisognava fare in fretta ad aggirare la legge. Non si poteva perdere altro tempo.

Si tratta, per carità, di una vicenda penosa e misera, nella sostanza. Alla fine, chissenefrega se Formigoni e la Polverini sono stati riammessi. Che vincano pure. Non sarà sicuramente l'esclusione della Polverini a cambiare le sorti del paese. Ma la forma. La forma con cui questo scempio è stato compiuto è indecente. Si tratta di un precedente pericolosissimo. La legge considerata come un'inutile cavillo e piegata dunque all'interesse del più forte. Con l'avallo del presidente della Repubblica.

Il quale avrebbe solo una cosa da fare: rendersi conto dell'enormità compiuta, chiedere scusa agli Italiani per aver calato le braghe in tutti questi anni di fronte a Berlusconi in ogni quando e in ogni dove e rassegnare immediate dimissioni. Perché questa è una ferita al sistema democratico che difficilmente sarà cancellabile. Una ferita che, come molti hanno sottolineato, assomiglia tanto alla firma che il re Vittorio Emanuele III appose legittimando la marcia su Roma di Mussolini. Avrebbe potuto opporsi in nome della legge. Non lo fece per andare incontro alla volontà del popolo. Ora, poiché, come si sa, “la storia si ripete sempre due volte, la prima in forma di tragedia, la seconda in forma di farsa”, le due situazioni non sono nemmeno paragonabili, nella sostanza. Ma la forma. La forma è paurosamente simile.

Sono tempi bui. Mai nella storia repubblicana (a parte il ventennio) il diritto era stato calpestato con tanta protervia e impudenza. Sono segnali bruttissimi, che non lasciano presagire nulla di buono. D'ora in poi, chiunque potrà avere il diritto di svegliarsi da un giorno con l'altro e presentare un decreto legge per legalizzare l'illegalità in nome di qualche fantomatico diritto. Chiunque potrà sentirsi autorizzato a non pagare la multa pur essendo passato col rosso, a pretendere di essere promosso pur non avendo studiato, a dormire tranquillamente pur avendo accoltellato il vicino. Sempre che, prima, s'intende, abbia avuto la ventura di diventare il presidente del maggior partito di governo.