lunedì 29 settembre 2008

Marcello, Silvio e la mafia (parte 16)

Tutti i fatti e le testimonianze riportati di seguito sono tratti dalla sentenza di primo grado dell'11 dicembre del 2004 da parte della II sezione penale del Tribunale di Palermo, che ha condannato l'imputato Marcello Dell'Utri a nove anni di reclusione.

CAPITOLO 16
I regali di Berlusconi a Cosa Nostra

Giovan Battista Ferrante è un mafioso doc. Dal 1980 faceva parte della famiglia mafiosa di San Lorenzo, mandamento storico di Palermo, capeggiato negli anni ottanta dal boss Rosario Riccobono, poi passato sotto la reggenza di Pippo Gambino e infine affidato a Salvatore Biodino, l'autista personale di Totò Riina, fino al 1993. Ferrante è un collaboratore di giustizia serio ed affidabile, profondo conoscitore delle dinamiche più interne di Cosa Nostra.

Ferrante dichiara di non conoscere Marcello Dell'Utri Gaetano Cinà, ma riferisce che Salvatore Biondino riceveva periodicamente (cadenza semestrale o annuale) somme di denaro provenienti da Canale5 per tramite di Raffaele Ganci. Lo sa perchè in alcune occasioni era presente lui stesso a queste consegne. Ricorda distintamente la volta in cui vennero fatti pervenire nelle tasche dell'autista di Riina 5 milioni di lire. Denaro estorto? Manco per sogno: regalo spontaneo per gentile concessione della Fininvest.

Ferrante è certo che tutte queste somme di denaro (richieste e non) arrivavano almeno dal 1988 e erano proseguite fino al 1992. Queste dichiarazioni collimano perfettamente con quelle dell'altro pentito Galliano che aveva spiegato come Raffaele Ganci, una volta scarcerato nel 1988, aveva ripreso in mano, su ordine di Riina, la situazione relativa ai soldi provenienti da Canale5 per mezzo di dell'Utri e Cinà.

Ferrante però non si limita a parlare in astratto. Indica persone e luoghi. Grazie a una sua segnalazione vengono ritrovate due rubriche manoscritte, custodite assieme a parecchie armi appartenenti alla famiglia di San Lorenzo. Queste due rubriche erano aggiornate da Salvatore Biondo, detto "il lungo", in modo per la verità sporadico e poco attento, e contengono l'una dei nomi, l'altra dei numeri. E' possibile capire il senso delle due rubriche solo incrociandone i dati. Non è nient'altro che il libro mastro dove vengono annotate le entrate della famiglia di San Lorenzo.

Ad un certo punto della prima rubrica si legge: "Can 5 numero 8".
A cui fa riferimento, al numero 8, sulla seconda rubrica: "regalo 990, 5000".

E' la prova inconfutabile di quanto afferma Ferrante: nel 1990 Canale 5 ha versato nelle tasche di Cosa Nostra 5.000.000 di lire a titolo di "regalo".

Nel 1990-91 l'emittente locale CRT di proprietà di Pietro Cocco viene acquistata da OmegaTV, società riconducibile al gruppo Fininvest. L'operazione si aggira attorno ai 2 miliardi di lire. Pietro Cocco è un imprenditore della zona che paga regolarmente il pizzo allo stesso Ferrante. Ovviamente, per poter portare a termine la vendita della propria emittente, ha dovuto passare attraverso la mediazione e il consenso della famiglia di San Lorenzo che gestisce la zona. Cocco, per sdebitarsi, ricompenserà la famiglia mafiosa con una grossa cifra, attorno ai 60-70 milioni di lire. Ma non solo. Si attiverà affinché la Fininvest faccia pervenire un regalo ogni anno alla stessa famiglia.

A corroborare la versione dei vari pentiti c'è anche la dichiarazione del boss Galatolo, il quale si lamenta del fatto che fosse l'unico a non percepire somme di denaro da parte di Canale 5: questa emittente pagava regolarmente "U cuirtu", cioè Riina e i Madonia, ma non lui, che pur aveva sotto il suo controllo la zona palermitana di Acquasanta, in cui rientrava anche il monte Pellegrino dove erano installati i ripetitori di Canale 5.

Ma c'è un altro pentito eccellente che su questa vicenda ha qualcosa da dire. Si tratta di Salvatore Cancemi. Egli conferma che fino a pochi mesi prima della strage di Capaci (23 maggio 1992) Berlusconi versava somme di denaro a Cosa Nostra per le "faccenda delle antenne", una sorta di contributo all'organizzazione mafiosa di Totò Riina. Cancemi afferma di essere stato presente varie volte alla consegna di queste somme di denaro presso la macelleria di Raffaele Ganci: le mazzette erano da 50 milioni di lire, legate con un elastico. La somma annuale, secondo Cancemi, era di 200 milioni di lire.

Si vede dunque come il Tribunale abbia raccolto elementi di prova "granitici e incontrovertibili" riguardo alla consegna sistematica di denaro da parte del duo Berlusconi-Dell'Utri nelle casse di Cosa Nostra. Il tribunale afferma che: "Non vi è dubbio che tale condotta, protrattasi per diversi anni, abbia procurato un vantaggio all’intera organizzazione criminale e non a singoli suoi componenti, atteso che le notevoli somme di denaro provenienti da Milano finivano nelle casse delle più importanti “famiglie” palermitane, dalle quali venivano utilizzate per i bisogni di tutti i sodali e, quindi, per il mantenimento, consolidamento e rafforzamento delle “famiglie” stesse".

Ancora più agghiacciante se si pensa che tale organizzazione criminale, facente capo proprio a Riina, che, intascando i soldi di Berlusconi teneva in vita e faceva proliferare Cosa Nostra, è la responsabile diretta delle stragi di Capaci prima e via D'Amelio poi, dove persero la vita i giudici Falcone e Borsellino, la moglie di Falcone e i ragazzi della scorta.

Le conclusioni del Tribunale nei riguardi del duo Dell'Utri-Berlusconi sono di una pesantezza devastante: " E’ significativo che Dell'Utri, anzichè astenersi dal trattare con la mafia (come la sua autonomia decisionale dal proprietario ed il suo livello culturale avrebbero potuto consentirgli, sempre nell’indimostrata ipotesi che fosse stato lo stesso Berlusconi a chiederglielo), ha scelto, nella piena consapevolezza di tutte le possibili conseguenze, di mediare tra gli interessi di Cosa Nostra e gli interessi imprenditoriali di Berlusconi (un industriale, come si è visto, disposto a pagare pur di stare tranquillo). Dunque, Marcello Dell’Utri ha non solo oggettivamente consentito a “cosa nostra” di percepire un vantaggio, ma questo risultato si è potuto raggiungere grazie e solo grazie a lui"

"Marcello DellUtri ha consapevolmente assunto lo stesso ruolo del coimputato Cinà; è stato, come quest’ultimo, un anello, il più importante, di una catena che ha consolidato e rafforzato Cosa Nostra, consentendole di “agganciare” una delle più importanti realtà imprenditoriali italiane e di percepire dal rapporto estorsivo, posto in essere grazie alla intermediazione del Dell’Utri e del Cinà, un lauto guadagno economico. L’ulteriore e decisivo tramite, al fianco dell’amico palermitano portatore diretto di interessi mafiosi. Così operando, Marcello Dell’Utri (come Cinà), ha favorito Cosa Nostra. Una condotta ripetitiva, quella di tramite tra gli interessi della mafia e quelli di Berlusconi, posta in essere da Dell’Utri anche in tempi successivi".

sabato 27 settembre 2008

Il regolamento di conti


E' bastato un pm che ha preso in mano da una parte la Costituzione italiana, dall'altra il testo del lodo Alfano e ne ha fatto notare le leggerissime incongruenze, per far saltare tutto e scatenare il putiferio.

Il pm si chiama Fabio De Pasquale. Si occupa di uno dei tanti processi a carico di Silvio Berlusconi: irregolarità nella compra-vendita dei diritti televisivi Mediaset. Come il bimbo di Andersen che vede l'imperatore nudo e giustamente osserva: "L'imperatore è nudo", mentre tutti gli altri intorno a lui elogiano l'eleganza di una stoffa inesistente, così De Pasquale ha eccepito in modo assolutamente elementare sulla legittimità del lodo: viola palesemente la Costituzione. Punto.

Una ridda di voci si sono sollevate. Ma come osa! Ma cosa sta dicendo? Ma chi si crede di essere? Ma non lo sa che Napolitano ha firmato il lodo in meno di ventiquattro ore? E allora cosa vuole questo magistratuncolo che sotto la toga nera ne nasconde sicuro una rossa? Peccato che questi discorsi, del tipo "lei non sa chi sono io", in Procura, ogni tanto, non trovano terreno dove attecchire. C'è poco da girarci intorno. Il lodo è o no anticostituzionale? Viola o no l'articolo 3 che sancisce l'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge senza distinzioni di condizione sociale? Beh, insomma, uno può dire tutto quello che vuole, si può arrampicare sugli specchi fin quando ne ha voglia, ma la risposta non può che essere affermativa. Il lodo Alfano è dal punto di vista costituzionale una porcata tremenda, tanto più che fa a pezzi uno degli articoli fondanti di tutte le democrazie liberali (l'uguaglianza delle persone) con semplice legge ordinaria (violando dunque anche l'articolo 138).

E' tanto palese la cosa, che i giudici, che fino a prova contraria sono superpartes, non hanno potuto che accogliere in toto tutti i rilievi mossi dal pm De Pasquale, decretare immediatamente la sospensione del processo per tutti e 12 gli imputati e rinviare il lodo al giudizio della Consulta, che con ogni probabilità lo stroncherà, come aveva già fatto con il lodo Schifani, con somma vergogna del Capo dello Stato, che si è sentito in dovere di apporre la propria firma in fretta e furia senza nemmeno rinviare formalmente alle camere (come aveva fatto Ciampi con il lodo Schifani).

E' bastato dunque un pm che ha fatto il proprio dovere di magistrato per scatenare il putiferio. Il primo a prendere parola è stato ovviamente il legale di fiducia di Silvio Berlusconi, nonchè badante personale del ministro della Giustizia, Niccolò Ghedini. Dopo aver fatto di tutto e di più, ai limiti della legalità, per impedire che il processo Mills procedesse spedito verso una condanna dell'imputato inglese (Berlusconi è immune grazie al lodo) che avrebbe comunque sparato fango sul premier, ora con quell'insopportabile voce mielosa dichiara che è grave per il paese il fatto che i magistrati milanesi si trovino politicamente vicini alle posizioni della sinistra nel ritenere il lodo anticostituzionale. E conclude: "Si vede che i magistrati di Milano hanno un particolare affetto per Silvio Berlusconi".

Un attacco non da lui. Una battuta che trasuda di amaro. Un'ammissione di sconfitta. Di solito controbatteva colpo su colpo, carte alla mano, con quell'eloquenza studiata ad arte, che sa convincerti di tutto e il contrario di tutto. Questa volta no. Non ha potuto che liquidare la faccenda con la solita battuta sulle toghe politicizzate. Roba che di solito lascia dire al suo assistito. Segno di un nervosismo palese, di un'insofferenza per come si stanno mettendo le cose, per un'apparente incapacità di riuscire ad arginare una giustizia che, con tutti gli intoppi e gli inciampi che ci puoi mettere davanti, alla fine sembra andare dritta per la sua strada.

Che il clima in casa Berlusconi sia assolutamente teso e i nervi a fior di pelle, lo testimonia l'aggressione verbale, assolutamente ingiustificata e fuori luogo, da parte del Ministro della giustizia Angelino Alfano nei confronti del CSM nella stessa giornata di ieri, a Parma, di fronte alla platea delle Camere penali. Urla la propria fermezza nel portare avanti la riforma della giustizia. "Le carriere saranno separate e non accadrà più che mentre il giudice e il pm si danno del tu, l'avvocato è costretto a dare del lei a tutti e due!" Scrosci di applausi. "Vogliamo decidere noi e non ci fermeremo davanti ai veti dei magistrati!". E' un Alfano completamente scatenato. Palamara, presidente dell'associazione magistrati, si dice sconsolato per tanta acredine: "Non l'avevo mai visto così. C'è aria di regolamento di conti".

Come se non bastasse, oggi lo stesso Berlusconi ha approfittato ed è intervenuto a piedi uniti sulla faccenda. "Basta intercettazioni su qualsivoglia reato! I pm non potranno più intervenire con controlli sulle telefonate per qualsivoglia reato e davvero quindi rispettare la privacy, che è uno dei primi diritti di tutti noi!".

Parole di un pazzo allo sbando. Non certo di un presidente del consiglio di un paese democratico. Un delirio di onnipotenza che fa paura e orrore allo stesso tempo. Berlusconi ha annunciato che la riforma della giustizia è pronta e si farà in tempi brevi. Bercia che i processi sono troppo lunghi e quindi le carriere dei pm e dei giudici devono essere divise, senza rendersi conto che non c'è alcun nesso ragionevole tra le due cose. Dice di ispirarsi a Falcone dimenticandosi che proprio Falcone non sarebbe potuto diventare quel che divenne se allora le carriere fossero state separate. Urla: "Questi magistrati non ci fermeranno!"

E' bastato un pm che ha fatto il suo dovere per scatenare questa reazione spropositata e violenta del governo, una controffensiva militare in piena regola dove Berlusconi ha mandato in prima fila a sparare i propri cecchini, prima Ghedini, poi Alfano e infine lui stesso.

La riforma della giustizia ideata da uno come Berlusconi, che ha dimostrato negli anni di non avere alcun rispetto per la giustizia e la legalità, non può che essere un attacco alle fondamenta costituzionali del paese. La situazione è gravissima.

Pezzo per pezzo si sta smantellando quello che rimane del nostro ordinamento democratico.

venerdì 26 settembre 2008

Marcello, Silvio e la mafia (parte 15)

Tutti i fatti e le testimonianze riportati di seguito sono tratti dalla sentenza di primo grado dell'11 dicembre del 2004 da parte della II sezione penale del Tribunale di Palermo, che ha condannato l'imputato Marcello Dell'Utri a nove anni di reclusione.

CAPITOLO 15
La cassate di Tanino

La sera del 28 novembre 1986 in via Rovani n.2 a Milano scoppia una bomba. Un ordigno rudimentale che scalfisce la cancellata provocando danni per qualche centinaia di migliaia di lire. La villa incriminata è di proprietà di Silvio Berlusconi. Abbiamo già visto in precedenza come Berlusconi informi immediatamente della cosa non le autorità, bensì l'amico Marcello Dell'Utri confidandogli tra il serio e il faceto che lui ha già capito chi è stato a piazzare l'esplosivo. E' sicuro: l'attentatore non può che essere Vittorio Mangano. Dell'Utri rimane stupito. E' convinto che Mangano sia ancora in carcere. Berlusconi lo rassicura e gli conferma che è appena uscito di galera: deve essere per forza lui.

Ci vuole un po' perchè Dell'Utri si convinca. Non si dà pace del fatto di non essere stato messo al corrente della scarcerazione di Vittorio. In fondo, una vita passata insieme, nemmeno una telefonata per dire "Sono fuori". Anzi, ci mette pure la bomba sotto casa. Dell'Utri è incredulo, ma di fronte all'insistenza di Berlusconi cede ("Sarà come dici tu").

La telefonata continua nell'ilarità generale. Berlusconi racconta di aver parlato della cosa con i carabinieri di Monza che erano arrivati sul luogo dell'attentato. Probabilmente senza nemmeno rendersi conto dalla gravità delle proprie affermazioni, spiega ai carabinieri che se l'anonimo attentatore invece di piazzare una bomba gli avesse semplicemente chiesto trenta milioni lui glieli avrebbe dati senza batter ciglio. Probabilmente è solo un riflesso incondizionato, abituato com'è a pagare milioni alla mafia per aver garantita l'incolumità.

Un paio di giorni dopo si scopre che le intuizioni di Berlusconi erano completamente fuori strada. Vittorio Mangano, come credeva fin dal principio Dell'Utri, è ancora in carcere: non può essere lui il colpevole dell'antentato dinamitardo. Dell'Utri ha avuto conferme sicure. Ha parlato con Tanino Cinà, il quale gli ha assicurato che è assolutamente da escludere il coinvolgimento di mangano in questa faccenda. "Tanino mi ha detto che assolutamente è proprio da escludere, ma proprio categoricamente. Comunque, poi ti parlerò di persona. E quindi, non c’è proprio, guarda, veramente, nessuna, da stare tranquillissimi, eh!"

Il Tribunale osserva: "La rassicurante notizia fornita da Cinà a Dell’Utri e da questi a Berlusconi, andava oltre il fatto oggettivo che Mangano fosse in galera; vi erano motivi ulteriori che Dell’Utri, per telefono, non vuole esternare a Berlusconi, ma che, evidentemente, non dovevano riguardare lo status di Mangano, né la sua persona..."

E' chiaro che Cinà è in grado di rassicurare in questo modo così perentorio Dell'Utri proprio in virtù delle proprie conoscenze mafiose ed è chiaro anche che Dell'Utri, rivolgendosi direttamente a lui, dimostra di essere pienamente cosciente della sua "mafiosità".

Berlusconi questa volta non fa più lo spavaldo. Al telefono neppure spiaccica parola. Interloquisce soltanto prima con un “Ah!”, poi con un “Uh!”, dopo con un “Ah si, eh?”, poi, ancora, con un triplo “Uh, Uh, Uh!” e, finalmente, dopo la precisazione di Dell’Utri che bisognava parlarne “di persona”, con un “perfetto, ho capito”". I silenzi di Berlusconi dicono tutto. Ha perfettamente capito che dietro alle rassicurazioni di Cinà c'è dell'altro. E per questo non dice nulla, non mette nemmeno in dubbio l'attendibilità di Cinà, sa che se l'ha detto lui, allora può stare tranquillo per davvero. E' assai probabile addirittura che Cinà, durante la conversazione telefonica, sia lì presente, al fianco di Dell'Utri.

Ma chi aveva messo la bomba veramente? In realtà non era stato Mangano qualche affiliato di Cosa Nostra. Era stata la mafia catanese. Riina, furbescamente, aveva sfruttato la cosa per operare ulteriori intimidazioni: sappiamo che il suo intento era quello di arrivare a Craxi per tramite di Berlusconi. Si capisce dunque la sicurezza di Cinà: dietro tutta la faccenda c'era la macchinazione di Riina. Se lui diceva di star tranquilli, c'era da credergli. Riina vede Berlusconi non soltanto come soggetto da estorcere, ma come soggetto da "coltivare" per cercare di ottenere favori politici.

Nel 1986, durante le festività natalizie, si intrattengono febbrili contatti telefonici tra Cinà, Dell'Utri, la moglie di Dell'Utri e suo fratello Alberto: il motivo di tanta agitazione è la spedizione a Milano di alcune cassate siciliane. I destinatari sono gli stessi fratelli Dell'Utri, Silvio Berlusconi e Fedele Confalonieri. Il fatto che Cinà si premuri tanto anche per far bella figura con Confalonieri è molto strano, visto che non sono risultati rapporti tali da poter giustificare il regalo. Lo stesso dicasi per Berlusconi. Tanto è vero che non una, ma due sono le cassate che vengono fatte pervenire da Cinà a Berlusconi. La prima viene spedita per via aerea: a ritirarla all'aeroporto ci sarà l'autista personale di Berlusconi, tale Fulvio Orlandini. La seconda, con su stampato lo stemma di Canale 5 (il biscione), è invece di dimensioni spropositate: 11 chili e 800 grammi di cassata. La confezione è stata appositamente predisposta da un falegname di fiducia di Cinà.

Qual è il motivo di un regalo così plateale ed esagerato? Perchè Cinà si sente in dovere di omaggiare Berlusconi con 12 chili di cassata? A ben guardare era Berlusconi che avrebbe dovuto sentirsi in dovere con Cinà: era stato lui a rivelargli che l'attentato alla Villa Rovani non era stata opera di Mangano. Era stato ancora lui a rassicurarlo sul fatto che non avrebbe avuto nulla da temere.

Forse che sotto sotto, come voleva Riina, ci fosse un tentativo, nemmeno troppo nascosto, di aggancio?

giovedì 25 settembre 2008

La cordata degli irresponsabili


L'avevo scritto in tempi non sospetti.

L'accordo, in un modo o nell'altro, si sarebbe fatto. L'avevo scritto prima che la cordata dei capitani coraggiosi ritirasse l'offerta truffa, paventando il fallimento definitivo di Alitalia. L'ho continuato a pensare in tutti questi giorni durante i quali, piano piano, la sinistra riannodava i fili con il governo trascinandosi dietro pure la fin qui riottosa CGIL di Epifani.

L'accordo, alla fine di un estenuante tira e molla, un balletto tanto finto quanto prevedibile, è arrivato. Pochi minuti fa. Epifani si è detto soddisfatto. Sacconi pure. Angeletti si è detto soddisfatto. Colaninno pure. Veltroni si è detto soddisfatto. Berlusconi pure.

Epifani ha firmato. Ha firmato senza il consenso degli assistenti di volo e dei piloti. Proprio coloro di cui si era erto a paladino non più di una settimana fa. Ha firmato "confidando che assistenti e piloti riflettano e contribuiscano al rilancio e al risanamento dell'azienda". Ha firmato perchè ha considerato soddisfacenti le proposte di Cai. Più o meno le stesse che non più di una settimana fa avevano suscitato insurrezioni a oltranza. Vediamole.

1) Verrà creato un "bacino di precari" da cui poter attingere in caso di necessità, "dando una speranza a lavoratori per i quali non c'era più nulla".

2) Gli stipendi del personale di terra non verranno toccati. Quelli del personale di volo verranno decurtati del 6-7% a cui farà fronte un maggior numero di ore lavorative.

3) Rinuncia da parte della Cai alle restrizioni sui trattamenti di malattia.

Cosa è cambiato rispetto alla prima proposta? Sulla carta praticamente nulla. A livello politico è cambiato tutto. E' cambiato il fatto che Veltroni ha giocato a un gioco troppo ardito per lui. Da New York, dove era andato per presentare la sua ultima fatica letteraria e, già che c'era, per comprare un attico a Manhattan per la figlia "approfittando del cambio favorevole", ha appoggiato le barricate di Epifani per far vedere che in fondo lui l'opposizione la fa. Dopo aver preso un'ondata di insulti da Berlusconi e dai suoi supini portavoce, ha deciso di fare la parte di quello che invece collabora per senso di responsabilità e ha scritto una lettera strappalacrime a Silvio spiegandogli per bene che cosa avrebbe dovuto fare. Berlusconi l'ha stracciata, l'ha insultato di nuovo e ha fatto quello che ha sempre voluto fare: cioè un accordo forzoso con Cai e nessun altro.

Fine della storia. Tutto come previsto: una porcata in piena regola. Come al solito. Berlusconi ottiene quello che aveva voluto sin dall'inizio usando metodi estrosivi. La sinistra esulta per una non ben precisata vittoria. Era successo con il Lodo Alfano, è risucceso con Alitalia.

La cordata degli irresponsabili. Ci metto dentro tutti. Governo, opposizione, imprenditori, sindacati. Alitalia è ufficialmente fallita da mesi. Era già fallita quando Berlusconi ha chiesto al defunto governo Prodi di varare il prestito ponte. Da quel momento non si è fatto nulla. Tutti sapevano che la situazione era drammatica, se non disperata. Nessuno si è mosso. Berlusconi aveva promesso di avere una cordata tutta italiana nella manica. Tanto è bastato ai sindacati per rompere le trattative con AirFrance senza chiedere altre delucidazioni. I sindacati, per Berlusconi, hanno sempre avuto un debole. Accecati dal suo bagliore, affascinati dal suo sorriso. Ci credono a prescindere, salvo poi prendersi periodicamente bastonate sui denti. E doverle pure accettare con il sorriso.

Alitalia è morta da mesi. E' stata tenuta in coma vegetativo fino agli sgoccioli. Ci sono stati mesi in cui si sarebbe potuta stendere una seria programmazione di rilancio dell'azienda. Si è aspettato sino all'ultimo. Berlusconi ha aspettato sino all'ultimo, sino al punto in cui il corpo ancora caldo di Alitalia attendeva solo che venisse staccata la spina, per presentare la porcata somma. La cordata tanto attesa si è palesata per quello che è: un'accozzaglia di avvoltoi e arpie, imprenditori dilaniati da mostruosi conflitti di interesse, amichetti personali del premier, tutti attirati dalla carogna Alitalia, appositamente ripulita di tutti i debiti milionari oculatamente scaricati sui contribuenti, il tutto in un regime di assoluta violazione del libero mercato con provvedimenti palesemente in contrasto con le regole dell'anti trust.

L'ha tirata fuori dal cilindro all'ultimo secondo. Ha detto: o prendere o lasciare. Ma se lasciate, sappiate che è tutta colpa vostra. Un'estorsione in piena regola, come è abituato a fare da tempo. La sinistra ha vacillato, si è spaccata, si è ricomposta, ha dialogato, ha firmato ed ora è felice.

Air France entrerà con una quota di minoranza attorno al 20%. Tra poco tempo questa quota di minoranza diventerà di maggioranza. Le iene della Cai, che di aerei non sanno nulla, dopo averci mangiato ben bene sopra si defileranno e lasceranno la torta a chi di comunicazioni aere se ne intende, cioè una compagnia apparentemente (non si sa mai) sana come AirFrance. Berlusconi blatera che questo non potrà avvenire prima di cinque anni. La verità è che se tutti i furbetti sono d'accordo (anzi, solamente più del 66%), potranno decidere di vendere a chi vogliono in qualsiasi momento, alla faccia della compagnia di bandiera italiana.

Gli esuberi, annuncia Angeletti, saranno 3250. Si fa festa. Peccato che siano cifre assolutamente a caso. Lo ammette lo stesso Angeletti: "nessuno ha mai chiarito quanti dipendenti abbia Alitalia". AirFrance ne aveva annunciati 2150, cioè 1110 in meno. Ma questo, ormai, chi se lo ricorda più? AirFrance si era anche offerta di accollarsi tutti i debiti di Alitalia: cioè aveva proposto un salvataggio vero. Acquistare una compagnia di bandiera linda e priva di debiti senza concorrenza non si chiama salvataggio: dicesi opera di sciacallaggio. Ora, come sappiamo, i debiti di Alitalia, insieme al famigerato prestito ponte, li pagheremo noi e i nostri figli per anni e anni a venire. Ma questo, in fondo, a chi interessa?

Viva l'(Al)italia.

martedì 23 settembre 2008

Marcello, Silvio e la mafia (parte 14)

Tutti i fatti e le testimonianze riportati di seguito sono tratti dalla sentenza di primo grado dell'11 dicembre del 2004 da parte della II sezione penale del Tribunale di Palermo, che ha condannato l'imputato Marcello Dell'Utri a nove anni di reclusione.

CAPITOLO 14
La trattativa con Totò Riina

Calogero Ganci è uno dei collaboratori di giustizia più preziosi in circolazione. E' figlio del boss Raffaele Ganci, dal 1983 capo mandamento della famiglia mafiosa palermitana della Noce e fedelissimo di Totò Riina, tanto da averne gestito per larghi tratti la latitanza. Riina, da parte sua, non nascose mai “di avere la Noce nel cuore”. Il 7 giugno 1996 Calogero Ganci decide di pentirsi. Non ne può più della propria vita da criminale. Dopo l'ultimo raccapricciante omicidio ai danni del figlioletto minore del pentito Di Matteo, decide di cambiare vita e fare nome e cognomi degli affiliati a Cosa Nostra.

E' talmente radicale il suo pentimento che Calogero Ganci confessa perfino delitti gravissimi di cui nemmeno era stato sospettato. Confessa di aver preso parte all'assassinio del generale Dalla Chiesa, del dottor Cassarà e dell'ex sindaco Inzalaco. Le sue testimonianze sono preziosissime, approfondite ed accurate, frutto di una diretta partecipazione ad episodi importantissimi e del rapporto filiale con Totò Riina, divenuto nel 1983 capo incontrastato di Cosa Nostra al termine della guerra di mafia. Calogero Ganci risulta essere dunque per il Tribunale una fonte assolutamente attendibile ed insostituibile, avendo ricevuto notizie di prima mano proprio da suo padre, Raffaele Ganci.

Era stato proprio suo padre a confidargli che nel 1984-85 si era fatto portavoce di un'esigenza di Marcello Dell'Utri, il quale, per conto di una ditta milanese del gruppo Berlusconi, voleva “aggiustare la situazione delle antenne televisive” e cioè “mettersi a posto” con Cosa Nostra al fine di ottenere la protezione di tali antenne in cambio del pagamento di somme di denaro. La storia delle antenne dunque era iniziata ai tempi di Bontate alla fine degli anni '70 e si protraeva anche ora che Bontate era stato fatto fuori a colpi di mitra. Cambiava solo l'interlocutore: ora c'era da trattare con Totò Riina.

In particolare, dopo l'avvento di Riina a capo di Cosa Nostra, a Giovanni Battista Pullarà vengono affidati i contatti con la ditta milanese di Silvio Berlusconi, in precedenza intrattenuti direttamente dagli stessi Bontate e Teresi. I fratelli Pullarà (c'è anche il fratello Ignazio) sono molti esigenti e tengono per il collo Berlusconi costringendolo a versare nelle casse di Cosa Nostra somme sempre più onerose.

Dell'Utri a tal proposito si lamenterà con Tanino Cinà di “essere tartassato” dagli uomini d'onore della famiglia di Santa Maria del Gesù. Cinà riferisce la questione, secondo le regole, al suo capofamiglia Pippo Di Napoli, il quale a sua volta parla con il suo capo mandamento Raffele Ganci che porta a conoscenza della notizia Totò Riina.

Riina va su tutte le furie: non può accettare che i Pullarà agiscano senza informare né lui né il loro capo mandamento Bernardo Brusca. Riina infatti vuole sempre essere tenuto al corrente di tutto, in special modo se la cosa può toccare uomini politici, come Bettino Craxi, segretario del Partito Socialista e notoriamente vicino a Silvio Berlusconi. E' noto infatti che l'obiettivo ultimo di Riina fosse quello di allacciare rapporti con Bettino Craxi per il tramite di Berlusconi. Nelle elezioni politiche del 1987 Cosa Nostra impose a tutti gli uomini d'onore di votare per il PSI di Craxi, cosa mai verificatasi in passato.

Riina dunque decide di tagliare fuori i Pullarà e ordina a Cinà di gestire direttamente la situazione “senza che nessuno si intrometta”. La questione viene risolta come al solito. Cinà si recherà un paio di volte all'anno a Milano per ricevere da Dell'Utri una certa somma di denaro, della cui quantità il collaborante è all'oscuro. Tale somma sarà girata a Pippo Di Napoli, da questi a Ganci e poi infine allo stesso Riina.

Un altro affiliato alla famiglia mafiosa della Noce è Francesco Paolo Anzelmo, sottocapo di Raffaele Ganci. Nel 1986, dopo l'arresto di Ganci, Anzelmo prenderà le redini della famiglia insieme al figlio di Raffaele, Mimmo Ganci. Anch'egli inizierà a parlare qualche mese dopo Calogero Ganci e anch'egli confesserà delitti gravissimi (Dalla Chiesa, Cassarà). Viene definito dal Tribunale “un soggetto dotato di competenze specifiche, intenzionato seriamente a collaborare, non animato, per come meglio si dirà, da intenti calunniosi contro chicchessia, lucido, logico ed essenziale nel riferire le notizie in suo possesso”.

Anzelmo conferma di aver saputo da Raffaele Ganci che Cinà era “incaricato di riscuotere il denaro da Marcello Dell'Utri”. Viene confermato pure il giro di denaro che finiva nelle tasche Totò Riina, una volta estromessi i Pullarà dalla faccenda. Anzelmo dà pure le cifre: due rate semestrali da cento milioni di lire l'una. Conferma pure che Dell'Utri agiva in tutto e per tutto come rappresentante di Silvio Berlusconi.

Risulta dunque che la Fininvest pagava Totò Riina 200 milioni di lire l'anno per la protezione delle antenne di Canale 5 in Sicilia.

Anzelmo conferma tutte le affermazioni di Calogero Ganci e ci aggiunge pure qualche succulento dato quantitativo. I rapporti tra Berlusconi-Dell'Utri e Cosa Nostra si dipanano dunque molto chiari nel tempo. Prima Bontate-Teresi, poi i fratelli Pullarà, ora, dopo la guerra di mafia, Totò Riina.

C'è un terzo collaboratore di giustizia, Antonino Galliano, nipote del boss Raffele Ganci, che aggiunge altri tasselli al mosaico. Racconta Galliano che, dopo l'arresto di Ganci alla fine del 1986, nella villa di Giovanni Citarda avvenne un incontro tra Mimmo Ganci, Pippo Di Napoli e Tanino Cinà. Cinà si lamenta del fatto che in quell'ultimo periodo Dell'Utri lo tratta male. E' scontroso, distaccato, non gli consegna più i soldi immediatamente, lo fa aspettare, alcune volte addirittura gli fa lasciare semplicemente la busta dal segretario. Mimmo Ganci capisce che la cosa può essere sfruttata per arrivare a Bettino Craxi. Informa immediatamente Riina.

Riina ordina a Mimmo Ganci (siamo nel 1987) di recarsi a Catania e imbucare una lettera intimidatoria nei confronti di Berlusconi e, dopo qualche settimana, di effettuare, sempre da Catania, una telefonata minacciosa allo stesso Berlusconi. Mimmo ganci spedisce la lettera. Poi si fa dare da Cinà il numero di telefono della villa di Arcore e chiama. Dell'Utri capisce l'antifona. Convoca a Milano Cinà e gli chiede di risolvere la questione. Cinà torna a Palermo e riferisce ai boss i desiderata di Dell'Utri. Riina risponde con la richiesta di un'elargizione di soldi doppia rispetto al passato: 100 milioni di lire. Dell'Utri fa sapere che non ci sono problemi. Questi soldi non hanno niente a che vedere con la protezione delle antenne. Questi sono per la protezione personale di Silvio Berlusconi.

Tutte queste somme di denaro, dell'ordine di centinaia di milioni di lire, venivano ridistribuiti secondo le direttive di Riina tra la famiglia di Santa Maria del Gesù e la famiglia di San Lorenzo. Avviene talmente tutto alla luce del sole che, dopo che nel 1988 Raffaele Ganci era uscito di prigione, Galliano racconta di aver assistito personalmente alla consegna dei “soldi di Berlusconi da parte di Pippo Di Napoli al boss, appena tornato nella società civile.

lunedì 22 settembre 2008

Marcello, Silvio e la mafia (parte 13)

Tutti i fatti e le testimonianze riportati di seguito sono tratti dalla sentenza di primo grado dell'11 dicembre del 2004 da parte della II sezione penale del Tribunale di Palermo, che ha condannato l'imputato Marcello Dell'Utri a nove anni di reclusione.

CAPITOLO 13
Il segugio delle antenne

Il 23 aprile 1981 il boss assoluto di Cosa Nostra Stefano Bontate rimane vittima della guerra di mafia scatenata dai corleonesi, capeggiati da Totò Riina. Poco tempo dopo anche Mimmo Teresi, potentissimo imprenditore da sempre legato a Bontate, trova la morte per mano della “lupara bianca”. Sia Bontate che Teresi facevano capo alla stessa famiglia mafiosa di Santa Maria del Gesù. Riina innesca così nei primi anni ottanta un turbinio impressionante di morti ammazzati. Il motivo è chiaro: ottenere la supremazia dei corleonesi sulle altre famiglie mafiose. La violenza e la crudeltà di tali delitti colgono impreparate tutte le famiglie mafiosi rivali. Nel 1983, al termine della guerra di mafia, Riina diviene il nuovo boss della mafia siciliana imponendo uno scarto radicale rispetto al passato. La sua è una gestione violenta e dittatoriale, basata sul terrore e i colpi di lupara.

Come cambiano dunque i rapporti tra Dell'Utri, Berlusconi, la Fininvest e i capi di Cosa Nostra? Abbiamo già avuto modo di vedere come tutta una serie di finanziamenti costanti si fosse intrattenuta da ambo le parti (da Fininvest a Cosa Nostra e viceversa con Dell'Utri come mediatore) durante il periodo di egemonia di Bontate. Che ne è di questi affari comuni? Continuano anche ora che a capo della cupola mafiosa si è insediata l'ala più sanguinaria della storia?

Per capirlo è necessario approfondire il tentativo di radicamento da parte della Fininvest in Sicilia. La strategia di Silvio Berlusconi è quella di acquistare emittenti televisive private siciliane per poi arrivare a una diffusione generale dei canali dell'azienda milanese su tutto il territorio nazionale. Il pentito Di Carlo racconta come negli anni tra il '77 e il '78 il solito Tanino Cinà, per conto di Dell'Utri, aveva chiesto aiuto a Cosa Nostra per l'installazione delle antenne televisive sul territorio siciliano, in particolare sul monte Pellegrino. Bontate e Teresi se ne occuperanno direttamente trattando con Saro Riccobono e Ciccio Madonia, capi della famiglia mafiosa di San Lorenzo, che aveva la giurisdizione su quel lembo di terra.

In effetti risulta provato che proprio in quegli anni (1979/80) la Fininvest, tramite una società satellite (Rete Sicilia s.r.l.), acquisisce l'emittente locale TVR Sicilia, che diventerà l'avamposto isolano di TeleMilano, la futura Canale 5. Il titolare di TVR Sicilia era un certo Antonio Inzaranto, imprenditore edile di Termini Imerese, in stretti rapporti con Tommaso Buscetta. Sentito come teste in sede dibattimentale, Inzaranto renderà dichiarazioni confuse, lacunose, molto reticenti e in parte contraddittorie. Il PM più volte perderà la calma: l'intento da parte del teste di difendere la propria posizione risulterà in alcuni casi tragicomico, come quando ad una stessa domanda risponderà convintissimo prima no e poi sì nell'arco di un paio di minuti. Dalla deposizione resa non si riesce bene a capire quale sia il motivo di tanto evidente imbarazzo: probabilmente sta cercando semplicemente di difendere qualcosa o qualcuno oltre a se stesso.

Dei fatti però emergono chiari. Il 21 dicembre 1979 risulta dagli atti che viene formalmente costituita Rete Sicilia s.r.l. Il 13 novembre dell'anno successivo Rete Sicilia subentra a TVR. L'operazione si aggira attorno ai 200 milioni di lire. Inzaranto però non lascia completamente. Chiede di avere l'1% dei proventi. La cosa buffa è che il gruppo Fininvest non solo accetta, ma lo lascia a capo di Rete Sicilia come direttore per altri nove anni, fino al 1988.

Come si è sviluppata in realtà questa operazione? Non è chiaro. A quanto pare Inzaranto già in precedenza aveva rapporti con Canale 5, da cui si faceva pervenire le videocassette dei film da mandare in onda. Non si capisce chi abbia fatto la prima mossa. Molto probabilmente la verità sta nel mezzo. Inzaranto si trovava in gravi difficoltà economiche e cercava un acquirente. Il gruppo Fininvest voleva espandersi sul territorio nazionale. Le due parti già avevano contatti e il matrimonio è stato cosa automatica. Ma forse c'è dell'altro.

Chi ha gestito l'acquisto? Due personaggi molto legati a Berlusconi, ovviamente: Luigi Lacchini e Adriano Galliani. Sì, proprio lui, l'attuale vicepresidente del Milan. Il giorno dopo aver saputo che la società siciliana era in vendita, Galliani e Lacchini si presentano in coppia a Palermo negli studi di Inzarato. Fanno un'offerta di 200 milioni. Inzarato non fa una piega. Dice sì al volo e si intasca i soldi. Tutti e tre si autonominano consiglieri di amministrazione di Rete Sicila s.r.l. Tutto avviene nell'arco di una giornata.

Pare improbabile, quasi comico, pensare, come afferma Inzarato, che lui non fosse assolutamente a conoscenza che dietro l'operazione ci fosse il gruppo di Silvio Berlusconi. Il PM ironizza sulla faccenda: “Ho capito, cioè li ha visti e immediatamente ha deciso che erano delle persone affidabili e che voleva concludere il contratto il giorno stesso”. Inzarato risponde convinto: “Sì!”.

Inzarato conferma anche che, nel momento di fondazione di TVR, la prima emittente locale, aveva dovuto installare dei ripetitori proprio sul monte Pellegrino, tra l'altro territorio abusivo. A questo punto è immediato collegare i fatti e pensare che, in realtà, già allora, dietro all'installazione di quelle antenne ci fosse quella famosa richiesta a Cosa Nostra, ricordata da Di Carlo e sollecitata da Antonino Cinà per conto di Dell'Utri e Berlusconi. Il PM tenta di approfondire infatti la questione, ma Inzarato nega qualunque contatto con i capi mafiosi. Dice di non aver mai ricevuto richieste di pizzo. Sfiora il ridicolo quando dichiara di non essere nemmeno a conoscenza di un'organizzazione mafiosa di nome Cosa Nostra. O, al massimo di averne sentito parlare solo alla radio. Reticenze che lasciano intendere molto di più di una confessione.

Inzarato dunque rimane nella società come Presidente. In realtà è semplicemente un prestanome. Non controlla assolutamente nulla. Firma le carte che Galliani gli sottopone senza nemmeno sapere di cosa si tratti. E per il resto? Niente. Lo dichiara lui stesso: “Non facevo niente”. Andava negli studi la mattina, guardava gli impiegati lavorare e tornava a casa la sera. Prendeva un bello stipendio (18 milioni l'anno più dividendi) e tanto gli bastava.

Di una cosa però si occupava: acquisto di terreni. Terreni su cui edificare le famose antenne, ovviamente. Evidentemente, nello scovare luoghi adatti all'installazione di ripetirori, specie se luoghi abusivi e in mano a Cosa Nostra, doveva essere un segugio di razza.

martedì 16 settembre 2008

Col sorriso sulle labbra


Quello a cui si sta assistendo in queste ore non è altro che una bieca riedizione di ciò che andò in scena più di sei anni fa, per la precisione il 5 luglio 2002, in pieno governo Berlusconi II. Allora, due delle massime organizzazioni sindacali del paese, CISL e UIL, fregandosene di una sempre sbandierata e mai concretizzata "unità delle sigle sindacali", decidevano, in completo disaccordo con la CGIL, di raggiungere con Confindustria il famoso accordo, denominato con un nome altisonante, nel solco della più tipica propaganda berlusconiana, Patto per l'Italia.


Quel patto, che era stato fortemente voluto da Confindustria e che era una versione riveduta e corretta del deleterio accordo del '93, firmato anche dalla CGIL, ha avuto come conseguenza un pesante danneggiamento delle condizioni dei lavoratori senza consentire una reale difesa dell'occupazione. Si ponevano le basi, tanto per dire, dell'abolizione dell'articolo 18, prefigurando così la possibilità del "licenziamento libero, senza giusta causa" da parte delle aziende. Allora, la CGIL portò migliaia di lavoratori in piazza per protestare contro l'accordo, esempio lampante di inciucio mal celato, ottenuto a tavolino tra CISL e UIL da una parte e Confindustria e governo dall'altra.

Oggi la situazione è molto simile. Bonanni, leader della CISL, sulla scia dei suoi predecessori supinamente asserviti a Confindustria, parla di ottimismo per un accordo con la CAI (Compagnia di Avvoltoi Italiani) sulla questione Alitalia. Fregandosene bellamente di tutte le sigle sindacali autonome e e dall'associazione piloti, che da giorni fanno le barricate negli aeroporti italiani chiedendo serietà nelle trattative e una garanzia di un futuro onorevole, Bonanni vuole assolutamente arrivare ad un accordo con il governo. Mettendo, tra l'altro, in posizione di forte disagio la CGIL, molto meno morbida su questo fronte e già accusata da Scajola di operare sotto influenze politiche.

Il PD nicchia. Fino a pochi giorni fa aveva sparato a zero sul disastroso e irresponsabile comportamento del governo in questa vicenda. Ora, sotto la minaccia di Berlusconi ("Se Alitalia fallirà, sarà solo colpa dei sindacati"), il fido Bonanni ha scodinzolato e ha assicurato che l'accordo si farà: gli esuberi saranno solamente poco più di tremila e gli stipendi rimarranno immutati, a patto che aumenteranno le ore di lavoro. Per la serie: come prenderlo in quel posto col sorriso sulle labbra. Di conseguenza, il PD, sulla minaccia di una disgregazione delle sigle sindacali, ora dovrà mediare e il ministro ombra Bersani si è già dimostrato più possibilista sull'accordo.

Berlusconi, nel frattempo, dagli studi di Porta a Porta, in cui ha inscenato, tra i risolini viscidi di Vespa, disgustosi duetti con la ancora più disgustosa campionessa (?) olimpica Valentina Vezzali ("Presidente! Da lei mi farei toccare!"), col sorriso sulle labbra delira sul numero dei licenziamenti, senza che Vespa faccia una piega, affermando che con Air France gli esuberi sarebbero stati almeno il doppio (in realtà sarebbero stati 1500 in meno di quanto si paventi ora), lancia anatemi contro chiunque si apponga all'accordo definendo "irresponsabili" coloro che si rifiutano di firmare il vergognoso "piano Fenice" da lui orchestrato insieme ai suoi amichetti imprenditori della sinistra e mente sul fatto che Alitalia non verrà svenduta a compagnie estere nei prossimi cinque anni.

Quale sarà il risultato? Semplice. Il giro di valzer è noto. Berlusconi fa una porcata. La sinistra urla allo scandalo. Berlusconi intima ai sindacati di prendere o lasciare, li minaccia, li mette con le spalle al muro. I sindacati asserviti, gli stessi che hanno fatto saltare l'accordo con Air France, rispondono "sì padrone". Quelli non asserviti urlano allo scandalo. I sindacati si spaccano. La sinistra si spacca: non si deve mica fare la figura degli irresponsabili. La sinistra apre ad un accordo. I sindacati asserviti esultano. Il governo si congratula. L'accordo si farà tra brindisi e sollazzi. I lavoratori piangono, urlano e protestano. Ma quelli ormai, chi li sente più?

E' l'eterno equivoco di questa sinistra.
Dialogare significa aprire a tutte le porcate berlusconiane.
Essere responsabili significa accettarle col sorriso sulle labbra.

Mai che il dialogo venga preteso in senso opposto.
Mai che il senso di responsabilità venga preteso dalla maggioranza.
Loro no. Loro possono fare e disfare come vogliono.
Dopo tutto hanno il consenso degli Italiani.
Oggi la fiducia nel Presidente del Consiglio è salita al 66%.

mercoledì 10 settembre 2008

Marcello, Silvio e la mafia (parte 12)

Tutti i fatti e le testimonianze riportati di seguito sono tratti dalla sentenza di primo grado dell'11 dicembre del 2004 da parte della II sezione penale del Tribunale di Palermo, che ha condannato l'imputato Marcello Dell'Utri a nove anni di reclusione.

CAPITOLO 12
Palermo, terra di conquista

Il 26 marzo 1994 il professor Aurelio Angelini, docente presso l'Università di Caltanissetta, si reca alla Procura della Repubblica di Palermo per presentare un esposto sulle vicende che riguardano il risanamento del centro storico del capoluogo siciliano. Angelini, oltre a svolgere l'attività di docente universitario, è anche portavoce regionale e componente dell'ufficio politico dei Verdi. L'esposto nasce dal timore che sul centro storico di Palermo confluiscano interessi politico-mafiosi che non avrebbero esitato a deturpare la città con colate di cemento per ottenere il massimo del profitto. Se si pensa poi che il sindaco di Palermo a quel tempo era un certo Vito Ciancimino, considerato l'anello di congiunzione tra gli interessi mafiosi locali e quelli imprenditoriali del Nord, si capisce come le paure di Angelini fossero più che fondate.

Non a caso il pentito Salvatore Cancemi aveva riferito che sul progetto di risanamento del centro storico di Palermo aveva messo gli occhi il gruppo imprenditoriale milanese facente capo a Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri. Che pure la mafia fosse interessata al progetto lo conferma un altro pentito eccellente, Tommaso Buscetta, il quale racconta che Pippo Calò l'aveva invitato a non lasciare la Sicilia poichè c'era la concreta possibilità di fare grossi guadagni col centro storico di Palermo. Ciancimino, racconta Buscetta, era nelle mani dei corleonesi di Totò Riina.

Consigliere comunale a Palermo dal 1985 al 1992, Alberto Mangano riferisce che riguardo agli interessi imprenditoriali del nord sul centro storico "circolavano dei nomi. Il nome del gruppo Gardini era il primo che veniva fatto e anche allora il nome del gruppo che faceva capo a Berlusconi, individuando in questi due gruppi imprenditoriali quelli più più grossi e quindi in grado, probabilmente, di fare operazioni di questo genere. Mentre sul gruppo Gardini già si era
a conoscenza dell’operazione fatta a Pizzo Sella, per capire, viceversa, sul gruppo che faceva capo a Berlusconi non c’erano altre operazioni..."
Un altro consigliere regionale della DC, Vito Riggio, eletto deputato in Parlamento nel 1987, presenta un'interrogazione al Ministro delle Finanze per chiedere ragguagli sui trasferimenti di proprietà nel centro storico di Palermo degli ultimi dieci anni. Il concreto timore era che "qualcuno, informato delle varianti di piano, avesse provveduto ad acquisire, si suppone a scarso prezzo, aree poi valorizzate dal nuovo piano". A tale interrogazione parlamentare non verrà mai data una risposta.
In realtà, poi, tutte le perizie disposte dal Tribunale non sono riuscite ad accertare se effettivamente la Fininvest avesse delle mire sul centro storico di Palermo. In particolare, non si è riusciti a capire se un'annotazione del 12 maggio 1992 rinvenuta negli appunti sequestrati a Dell'Utri che recitava "Maniscalco, appuntamento cinque minuti" fosse da riferirsi ai costruttori Maniscalco, che si sono occupati del risanamento del centro storico di Palermo. Dunque, nulla porta a ritenere credibili le dichiarazioni di Cancemi, Buscetta e Mutolo, che raccontavano come all'interno di Cosa Nostra circolasse la voce di un interessamento di Berlusconi alla Sicilia.
Nulla. Se non fosse per un piccolo particolare, a dire il vero agghiacciante.
Lo stesso Marcello Dell'Utri, nel corso dell'interrogatorio reso al P.M. di Palermo il 1 luglio 1996, dà di queste dicerie una spiegazione alquanto particolare: i rapporti che intercorrevano tra Vittorio Mangano, lui e Berlusconi erano a tal punto "notori" nell'ambiente mafioso palermitano, che in Cosa Nostra erano iniziate a circolare alcune voci...

lunedì 8 settembre 2008

Marcello, Silvio e la mafia (parte 11)

Tutti i fatti e le testimonianze riportati di seguito sono tratti dalla sentenza di primo grado dell'11 dicembre del 2004 da parte della II sezione penale del Tribunale di Palermo, che ha condannato l'imputato Marcello Dell'Utri a nove anni di reclusione.

CAPITOLO 11
Sardegna, terra di conquista

All'inizio degli anni ottanta la Sardegna diventa improvvisamente un richiamo irresistibile per la mafia siciliana che decide di reinvestire il denaro sporco (derivante principalmente dai traffici di droga) in palazzi e terreni. Particolarmente interessati ad esportare i propri interessi economici sull'isola sono Pippo Calò, capo della famiglia mafiosa di Porta Nuova, e un certo Flavio Carboni, oscuro faccendiere che si dibatte tra usurai (i cosiddetti "cravattari") da cui riceve i finanziamenti, esponenti dell'alta finanza e personaggi malavitosi appartenenti alla famosa "banda della Magliana", che a quei tempi fa il bello e il cattivo tempo nelle periferie di Roma.

I due, in realtà, sono grandi amici, come racconta il collaboratore di giustizia Angelo Siino: "Io so benissimo che Pippo Calò era in ottimi rapporti con Flavio Carboni". La circostanza è confermata anche da un altro pentito eccellente, Gaspare Mutolo: "In quel periodo c’era in Sardegna il Pippo Calò con questo Flavio Carboni ed altri personaggi, come Faldetta ecc..., che raccoglievano soldi". Il collaboratore Francesco Di Carlo aggiunge nomi e personaggi alla vicenda: "Calò aveva investito in società per fare residence e costruzioni in una costa della Sardegna ed era in società per quello che so con Flavio Carboni. Anche Di Gesu' e Nino Rotolo erano nella stessa società. Nino Rotolo era uomo d'onore, capofamiglia a Pagliarelli. Poi c'era anche un certo Abbruciati Danilo".

Il 6 luglio 1998 Antonio Mancini, esponente di spicco della banda della Magliana, confermerà l'esistenza di stretti rapporti tra il proprio gruppo criminale (primo fra tutti Danilo Abbruciati) e rappresentanti di Cosa Nostra, in particolare Pippo Calò e Stefano Bontate. Dalle sue dichiarazioni però emergerà pure che un altro gruppo imprenditoriale era molto interessato in quel periodo ad investire nel campo immobiliare in Sardegna. E, manco a dirsi, quel gruppo faceva capo a Silvio Berlusconi.

Gli interessi in gioco sono grandi e si intrecciano in maniera praticamente inestricabile. E' stato accertato, per esempio, che Danilo Abbruciati disponeva di un villino a Punta Lada di Porto Rotondo, di cui era comproprietario Domenico Balducci, altro componente della banda; oppure: lo stesso Abbruciati nel 1981 aveva frequentato la villa abitata dal banchiere Roberto Calvi e dal faccendiere Francesco Pazienza; o ancora: la villa di Flavio Carboni verrà acquistata da Silvio Berlusconi.

Il 9 dicembre 1982 Emilio Pellicani si presenta alla Procura della Repubblica di Trieste e consegna un memoriale scritto di suo pugno (poi denominato "memoriale Pellicani") che verrà inserito tra gli atti della Commissione d'inchiesta sulla P2. Emilio Pellicani conosce benissimo Flavio Carboni per essere stato suo coadiutore nella società Sofint. Cosa scrive Pellicani nel suo memoriale?

Beh, tra le altre cose, si legge che nel 1980 Flavio Carboni aveva contattato Romano Comincioli che sapeva essere amico di Silvio Berlusconi, allora proprietario del gruppo Edilnord, e gli aveva riferito del progetto di costruire a nord e a sud di Olbia. Berlusconi, entusiasta della proposta, incontra Carboni a Roma nel marzo del 1980 e insieme varano il progetto "Olbia2" (poi ribattezzato "Costa Turchese"). L'investimento iniziale è di 7 miliardi di lire. Un miliardo dei sette ce lo mette Berlusconi per l'acquisto di terreni edificabili. I proventi sarebbero stati distribuiti al 45% tra Berlusconi e Carboni, il 10% sarebbe spettato a Comincioli.

L'impegno finanziario diventa però sempre più oneroso nel tempo: i circa 1000 ettari acquistati avevano richiesto un esborso di 21 miliardi di lire. Berlusconi, nel frattempo, è alle prese con gravi problemi finanziari legati ai nuovi impegni nelle televisioni. Il connubio Berlusconi-Carboni dunque soffre di una battuta d'arresto. Carboni decide allora di guardarsi attorno alla ricerca di nuovi finanziatori e ricorrerà anche ai prestiti usurai da parte di Diotallevi e Balducci.

Il 27 agosto 1982 Silvio Berlusconi viene sentito dal dott. Dell'Osso, sostituto procuratore della repubblica di Milano, al quale rilascia le seguenti dichiarazioni.

"Non ho avuto alcun rapporto di lavoro con il defunto Roberto Calvi. Circa la mia conoscenza ed i miei rapporti con il sig. Flavio Carboni, posso dire quanto segue. Il mio gruppo ha una piccolissima attività imprenditoriale in Sardegna, a Porto Rotondo. Se ne occupa il mio amico Romano Comincioli, che opera con la società Poderada, la quale ha edificato due costruzioni e ne ha in fase di edificazione altre due. E’ stato tale mio collaboratore a parlarmi delle varie possibilità imprenditoriali che offriva la zona di Olbia, presentandomi il Sindaco Garzedda ed anche il suo successore. I predetti erano interessati ad attirare degli imprenditori della penisola che volessero operare sul posto. Per conto mio il progetto di un rilevante insediamento urbanistico nella zona, di carattere turistico ed anche residenziale costituiva una valida iniziativa imprenditoriale. Per altro, l’unica possibilità di insediamento era costituita da una zona attigua ad Olbia, indicata dagli stessi amministratori, zona i cui terreni erano in parte in mano al Carboni. Fu così che conobbi il Carboni, che mi venne presentato dal Comincioli in Olbia. Per essere più specifico ed esauriente posso dire che il Signor Comincioli è titolare di una certa società, che ha ricevuto da noi mano a mano i finanziamenti necessari per l’acquisto dei terreni, acquisto effettuato appunto tramite il Carboni. I terreni, una volta acquistati, sono stati intestati a due società fiduciarie del signor Comincioli, società che - una volta che sarà ultimata l’operazione - saranno acquisite dal Gruppo Fininvest”.

L'operazione Olbia2, nonstante la mediazione del prestanome Cominicoli, dunque, non va in porto. Berlusconi, momentaneamente privo di Marcello Dell'Utri (assunto in quel periodo da Rapisarda), si imbatte di nuovo in quell'organizzazione mafiosa che proprio Dell'Utri gli aveva portato in casa qualche anno prima con Mangano. A quel punto Berlusconi, che aveva sempre espresso un parere negativo sulle capacità imprenditoriali di Dell'Utri, a sorpresa richiama Marcello a Milano e incredibilmente gli affida le chiavi della cassaforte del gruppo Fininvest, cioè la società Publitalia. Che cosa gli ha fatto cambiare idea così repentinamente? Sicuramente non il fallimento della società Bresciano gestita da Dell'Utri per conto di Rapisarda.

"Forse che Dell'Utri veniva ritenuto più affidabile nella gestione dei rapporti con i mafiosi?" si chiede allusivamente il PM.

Purtroppo non c'è modo di dare una risposta a questa domanda. Quello che è certo è che Dell'Utri, tornato alle dipendenze di Berlusconi, dà prova di insospettabili doti manageriali creando una struttura come Publitalia che diventerà il polmone finanziario insostituibile della Fininvest.

domenica 7 settembre 2008

Il cuore nero di Milano


L'apologia di fascismo è un reato previsto dalla legge del 20 giugno 1952, n. 645 (contenente "Norme di attuazione della XII Disposizione Transitoria e finale (comma primo) della Costituzione"), anche detta "legge Scelba", che all'art. 4 sancisce il reato commesso da chiunque "fa propaganda per la costituzione di un'associazione, di un movimento o di un gruppo avente le caratteristiche e perseguente le finalità di riorganizzazione del disciolto partito fascista, oppure da chiunque "pubblicamente esalta esponenti, princìpi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche".

La "riorganizzazione del disciolto partito fascista" viene riconosciuta "quando un'associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista."

Da ieri apre ufficialmente a Milano in via San Brunone 17, angolo via Pareto, il circolo neofascista-neonazista denominato Cuore Nero. Se avete voglia e tempo da buttare, andatevi a fare un giro sul sito web. Vi accoglierà il battito di un cuore pulsante, corredato da uno stemma circolare nero dove campeggia un simpatico teschio altrettanto nero sullo sfondo di una coccarda tricolore: ai lati due spighe di grano a velato ricordo del regime fascista. C'è una grande collezione di foto dell'orgoglio neo-fascista: talmente vigliacchi da riprendersi sorridenti sfoggiando il saluto romano, ma con le facce nascoste e censurate.

L'inaugurazione non è stata delle più felici. Ad attendere i ragazzi con le teste rasate e giubbotto nero (una cinquantina circa), un gruppo di cinquecento manifestanti legati ai centri sociali, a Rifondazione Comunista e ai comitati antifascisti (Caf), che hanno tentato di rompere il cordone di polizia predisposto. Qualche carica, qualche fumogeno, qualche manganellata: giusto per immedesimarsi completamente nello spirito neofascista. La scintilla è scattata quando un anziano consigliere di zona della Lega Nord, tale Costante Ranzini, vestito di tutto punto, con camicia nera e fazzolettino verde al collo, si è diretto in modo provocatorio verso la zona dei manifestanti. Dopo aver scatenato il putiferio, se ne è andato sprezzante, commentando sarcastico: "Si vede che è una piazza libera".

Se si considera che il nuovo circolo Cuore Nero sorgerà a pochi metri dal centro sociale Torchiera e a cento metri dal campo rom del Triboniano e di Via Barzaghi, si capisce come la situazione sia di una delicatezza estrema. Il tutto nel silenzio complice delle istituzioni milanesi che permettono ad un centro dichiaratamente ed orgogliosamente neofascista di sorgere nel territorio della città coperto per giunta dalla protezione di un cordone di polizia. Che la tensione sia altissima in quella zona di Milano lo dimostra il fatto che il circolo Cuore Nero sarebbe dovuto nascere già tempo addietro. L'incendio doloso dell'aprile 2007 aveva però devastato i locali di un ex negozio di lapidi mortuarie dove avrebbe dovuto avviarsi l'attività del circolo neofascista, ufficialmente circolo culturale. Lo smacco aveva suscitato allora feroci tentativi di vendetta a stento sopiti grazie anche all'intervento di esponenti di Alleanza Nazionale: "State tranquilli camerati, prima o poi gliela faremo pagare".

L'intento è palese: aprire anche a Milano centri sociali di destra e costituire zone off-limits per la sinistra, sul modello romano. Un salto rispetto alla precedente esperienza della “Skin House”, adibita quasi esclusivamente a concerti e a grandi bevute di birra, in via Cannero, alla Bovisa, in un luogo estremamente isolato, a ridosso della massicciata della ferrovia.

Questo di Cuore Nero è qualcosa di più: è un primo insediamento ufficialmente riconosciuto che faccia da polo attrattore per tutti quei gruppi neofascisti che popolano Milano e provincia. Ma non solo. Una gran parte di questi aspiranti neo-camerati fa parti di gruppi della tifoseria organizzata che ogni domenica riempiono le curve di San Siro, sponda Inter. Non è un segreto che la tifoseria interista inglobi al suo interno frange di estrema destra spiccatamente razziste. L'esaltazione malata per il calcio mischiata all'esaltazione malata per un nefasto ideale politico: un cocktail potenzialmente micidiale.

Se volete capire il tenore del livello culturale di tale associazione, leggete alcuni commenti lasciati sul guest book del sito web. Ne riporto solo alcuni, i più "significativi."

ANIMANERA: "Andate, azzannate e mostrateci i denti sporchi di sangue... Noi prenderemo a calci i brandelli del nemico!"

PEPPE: "Ciao a tutti i camerati d'Italia. Ho appena visto al TG le cazzate ke hanno combinato i rossi durante l'inaugurazione della nuova sede. Esprimo la mia solidarietà alle loro madri per aver messo al modo dei coglioni simili!!! W il duce e W tutti i camerati!!!"

ZWILLINGER: "Un saluto romano a tutti voi. Ragazzi spero di vedervi domenica allo stadio, da Catania saliremo in tanti felici di rivedervi!!! Spero che oggi sia andato tutto bene. Ho sentito in TV di un po' di cazzi per colpa delle zecche! A sostegno di una fede".

GUEST: "Cosa hanno combinato oggi i bastardi compagni? Spero che la polizia li abbia fatti viola di manganellate! Sieg Heil!"

TERA: "Presto spero che ancora una volta tutte le piazze d'Italia gridino un solo coro: W il Duce!"

ALE.BRIXIA: "Saluti dalla Comunità Militante Bresciana! H.H. (Heil Hitler n.d.r.)"

Da oggi, Milano ha un cuore nerissimo.