martedì 23 settembre 2008

Marcello, Silvio e la mafia (parte 14)

Tutti i fatti e le testimonianze riportati di seguito sono tratti dalla sentenza di primo grado dell'11 dicembre del 2004 da parte della II sezione penale del Tribunale di Palermo, che ha condannato l'imputato Marcello Dell'Utri a nove anni di reclusione.

CAPITOLO 14
La trattativa con Totò Riina

Calogero Ganci è uno dei collaboratori di giustizia più preziosi in circolazione. E' figlio del boss Raffaele Ganci, dal 1983 capo mandamento della famiglia mafiosa palermitana della Noce e fedelissimo di Totò Riina, tanto da averne gestito per larghi tratti la latitanza. Riina, da parte sua, non nascose mai “di avere la Noce nel cuore”. Il 7 giugno 1996 Calogero Ganci decide di pentirsi. Non ne può più della propria vita da criminale. Dopo l'ultimo raccapricciante omicidio ai danni del figlioletto minore del pentito Di Matteo, decide di cambiare vita e fare nome e cognomi degli affiliati a Cosa Nostra.

E' talmente radicale il suo pentimento che Calogero Ganci confessa perfino delitti gravissimi di cui nemmeno era stato sospettato. Confessa di aver preso parte all'assassinio del generale Dalla Chiesa, del dottor Cassarà e dell'ex sindaco Inzalaco. Le sue testimonianze sono preziosissime, approfondite ed accurate, frutto di una diretta partecipazione ad episodi importantissimi e del rapporto filiale con Totò Riina, divenuto nel 1983 capo incontrastato di Cosa Nostra al termine della guerra di mafia. Calogero Ganci risulta essere dunque per il Tribunale una fonte assolutamente attendibile ed insostituibile, avendo ricevuto notizie di prima mano proprio da suo padre, Raffaele Ganci.

Era stato proprio suo padre a confidargli che nel 1984-85 si era fatto portavoce di un'esigenza di Marcello Dell'Utri, il quale, per conto di una ditta milanese del gruppo Berlusconi, voleva “aggiustare la situazione delle antenne televisive” e cioè “mettersi a posto” con Cosa Nostra al fine di ottenere la protezione di tali antenne in cambio del pagamento di somme di denaro. La storia delle antenne dunque era iniziata ai tempi di Bontate alla fine degli anni '70 e si protraeva anche ora che Bontate era stato fatto fuori a colpi di mitra. Cambiava solo l'interlocutore: ora c'era da trattare con Totò Riina.

In particolare, dopo l'avvento di Riina a capo di Cosa Nostra, a Giovanni Battista Pullarà vengono affidati i contatti con la ditta milanese di Silvio Berlusconi, in precedenza intrattenuti direttamente dagli stessi Bontate e Teresi. I fratelli Pullarà (c'è anche il fratello Ignazio) sono molti esigenti e tengono per il collo Berlusconi costringendolo a versare nelle casse di Cosa Nostra somme sempre più onerose.

Dell'Utri a tal proposito si lamenterà con Tanino Cinà di “essere tartassato” dagli uomini d'onore della famiglia di Santa Maria del Gesù. Cinà riferisce la questione, secondo le regole, al suo capofamiglia Pippo Di Napoli, il quale a sua volta parla con il suo capo mandamento Raffele Ganci che porta a conoscenza della notizia Totò Riina.

Riina va su tutte le furie: non può accettare che i Pullarà agiscano senza informare né lui né il loro capo mandamento Bernardo Brusca. Riina infatti vuole sempre essere tenuto al corrente di tutto, in special modo se la cosa può toccare uomini politici, come Bettino Craxi, segretario del Partito Socialista e notoriamente vicino a Silvio Berlusconi. E' noto infatti che l'obiettivo ultimo di Riina fosse quello di allacciare rapporti con Bettino Craxi per il tramite di Berlusconi. Nelle elezioni politiche del 1987 Cosa Nostra impose a tutti gli uomini d'onore di votare per il PSI di Craxi, cosa mai verificatasi in passato.

Riina dunque decide di tagliare fuori i Pullarà e ordina a Cinà di gestire direttamente la situazione “senza che nessuno si intrometta”. La questione viene risolta come al solito. Cinà si recherà un paio di volte all'anno a Milano per ricevere da Dell'Utri una certa somma di denaro, della cui quantità il collaborante è all'oscuro. Tale somma sarà girata a Pippo Di Napoli, da questi a Ganci e poi infine allo stesso Riina.

Un altro affiliato alla famiglia mafiosa della Noce è Francesco Paolo Anzelmo, sottocapo di Raffaele Ganci. Nel 1986, dopo l'arresto di Ganci, Anzelmo prenderà le redini della famiglia insieme al figlio di Raffaele, Mimmo Ganci. Anch'egli inizierà a parlare qualche mese dopo Calogero Ganci e anch'egli confesserà delitti gravissimi (Dalla Chiesa, Cassarà). Viene definito dal Tribunale “un soggetto dotato di competenze specifiche, intenzionato seriamente a collaborare, non animato, per come meglio si dirà, da intenti calunniosi contro chicchessia, lucido, logico ed essenziale nel riferire le notizie in suo possesso”.

Anzelmo conferma di aver saputo da Raffaele Ganci che Cinà era “incaricato di riscuotere il denaro da Marcello Dell'Utri”. Viene confermato pure il giro di denaro che finiva nelle tasche Totò Riina, una volta estromessi i Pullarà dalla faccenda. Anzelmo dà pure le cifre: due rate semestrali da cento milioni di lire l'una. Conferma pure che Dell'Utri agiva in tutto e per tutto come rappresentante di Silvio Berlusconi.

Risulta dunque che la Fininvest pagava Totò Riina 200 milioni di lire l'anno per la protezione delle antenne di Canale 5 in Sicilia.

Anzelmo conferma tutte le affermazioni di Calogero Ganci e ci aggiunge pure qualche succulento dato quantitativo. I rapporti tra Berlusconi-Dell'Utri e Cosa Nostra si dipanano dunque molto chiari nel tempo. Prima Bontate-Teresi, poi i fratelli Pullarà, ora, dopo la guerra di mafia, Totò Riina.

C'è un terzo collaboratore di giustizia, Antonino Galliano, nipote del boss Raffele Ganci, che aggiunge altri tasselli al mosaico. Racconta Galliano che, dopo l'arresto di Ganci alla fine del 1986, nella villa di Giovanni Citarda avvenne un incontro tra Mimmo Ganci, Pippo Di Napoli e Tanino Cinà. Cinà si lamenta del fatto che in quell'ultimo periodo Dell'Utri lo tratta male. E' scontroso, distaccato, non gli consegna più i soldi immediatamente, lo fa aspettare, alcune volte addirittura gli fa lasciare semplicemente la busta dal segretario. Mimmo Ganci capisce che la cosa può essere sfruttata per arrivare a Bettino Craxi. Informa immediatamente Riina.

Riina ordina a Mimmo Ganci (siamo nel 1987) di recarsi a Catania e imbucare una lettera intimidatoria nei confronti di Berlusconi e, dopo qualche settimana, di effettuare, sempre da Catania, una telefonata minacciosa allo stesso Berlusconi. Mimmo ganci spedisce la lettera. Poi si fa dare da Cinà il numero di telefono della villa di Arcore e chiama. Dell'Utri capisce l'antifona. Convoca a Milano Cinà e gli chiede di risolvere la questione. Cinà torna a Palermo e riferisce ai boss i desiderata di Dell'Utri. Riina risponde con la richiesta di un'elargizione di soldi doppia rispetto al passato: 100 milioni di lire. Dell'Utri fa sapere che non ci sono problemi. Questi soldi non hanno niente a che vedere con la protezione delle antenne. Questi sono per la protezione personale di Silvio Berlusconi.

Tutte queste somme di denaro, dell'ordine di centinaia di milioni di lire, venivano ridistribuiti secondo le direttive di Riina tra la famiglia di Santa Maria del Gesù e la famiglia di San Lorenzo. Avviene talmente tutto alla luce del sole che, dopo che nel 1988 Raffaele Ganci era uscito di prigione, Galliano racconta di aver assistito personalmente alla consegna dei “soldi di Berlusconi da parte di Pippo Di Napoli al boss, appena tornato nella società civile.

1 commento:

Anonimo ha detto...

fammi capire, ma stai scrivendo un libro?
:)