domenica 25 luglio 2010

Era mio nonno


Ti ho sognato, l’altra notte. Se non mi sbaglio, credo sia la prima volta che mi capita. Eri seduto sul tuo lettino d’ospedale, bianco. Tu, col tuo camice bianco. Nonostante l’ictus che ti aveva colpito qualche giorno prima e che ti aveva lasciato semiparalizzato, eri seduto e cercavi pure di parlare. Ma, per quanto ti sforzassi, dalla tua bocca, immobile, usciva solo un borbottio indistinto. Ne eri seccato, maledettamente seccato. E io credo, a un certo punto, di aver persino intuito quello che volevi dirmi. Ma ora, purtroppo, non me lo ricordo. Ricordo solo, nel sogno, di essermi voltato e di aver scambiato un cenno d’intesa con mio fratello, che stava in piedi, dietro di te, sorridente, nel giorno del suo compleanno: Vedi, il nonno si sta riprendendo.

Ora che sei morto, provo a buttare giù queste due righe. Ti sembrerà egoista, ma lo faccio più per me, che per te. Per alleviare, se possibile, questo dolore che ancora non so come sfogare. Che è cresciuto, in questi dieci giorni di agonia, più acuto e più irreale, per qualcosa che, prima o poi (dentro di me lo sapevo) doveva succedere, ma che non poteva succedere, ora. Almeno non così. Sarà la distanza, sarà l’oceano che c’è di mezzo, ma a me ancora non sembra vero. E se anche la mente tenta di convincermi che è finita, io proprio non riesco ad immaginarti, morto.

Tu sei quello che, dopo esserti ripreso da un primo, lieve ictus, avvisaglia di quello fatale che ti avrebbe colpito solo un paio di giorni dopo, al telefono, ancora confuso, chiedevi a me come stavo. A me. Tu che eri appena uscito dall’ospedale chiedevi a me come stavo. Quelle sono state le ultime parole che abbiamo scambiato. E io non sono nemmeno riuscito a chiedere a te, come stavi. Perché l’unica cosa che pareva ti importasse sapere era: Federico, come stai?

Quando ripenso a questi ultimi momenti, non so perché, mi torna alla mente, chiara, un’immagine che mi è rimasta impressa da tempo, che ho letto per la prima volta in un libro a me particolarmente caro. Sono andato a recuperarla. Fa così:“A me m'ha sempre colpito questa faccenda dei quadri. Stanno su per anni, poi senza che accada nulla, ma nulla dico, fran, giù, cadono. Stanno lì attaccati al chiodo, nessuno gli fa niente, ma loro a un certo punto, fran, cadono giù, come sassi. Nel silenzio più assoluto, con tutto immobile intorno, non una mosca che vola, e loro, fran. Non c'é una ragione. Perché proprio in quell'istante? Non si sa. Fran. (...) Non si capisce. E' una di quelle cose che è meglio che non ci pensi, se no ci esci matto”. Ecco, tu eri proprio come uno di quei quadri, antichi, appesi al loro posto, sempre là. E potevano passare stagioni, potevano cambiare proprietari, poteva essere ristrutturata tutta la casa da cima a fondo, ma alla fine ti si ritrovava sempre appeso, lì, alla tua parete. E nessuno si sarebbe mai potuto immaginare la casa senza quel quadro. Era una cosa semplicemente inconcepibile. Ma ora, all’improvviso, mi sei crollato. Fran. E io mi ritrovo qui a guardarmi attorno, a cercare di mettere assieme i pezzi per dar senso ad una cosa che, di senso, ne ha veramente poco.

Sei andato a morire lontano da casa, ironia della sorte, il primo giorno di vacanza al mare. Un posto che ti piaceva particolarmente. Dove, esattamente quattro anni fa, abbiamo visto insieme, davanti ad un maxischermo, l’Italia schiantare la Germania 2-0 e qualificarsi per la finale che ne avrebbe segnato il trionfo. Proprio come nel lontano ’82, quando, mi raccontavi sempre, tenendomi in braccio, mi indicavi un piccolo televisore in bianco e nero, e io che avevo due anni, insieme a te, gridavo Goooal ai gol di Paolo Rossi. Sei andato a morire lontano da casa, lontano dalla tua amata Monza, ironia della sorte, come se non volessi che la tua città ti vedesse in quelle condizioni. Sei andato a morire al mare, a Venezia, la città dei tuoi genitori, piena di ricordi d’infanzia. E forse è giusto così. Venezia. Quando sentivi quel nome, ti si illuminavano gli occhi, e sempre, tutte le volte, mi raccontavi dei tuoi cugini, che dal balcone della loro casa nel sestiere di Cannaregio giocavano a tuffarsi direttamente in acqua dal secondo piano.

Quando me ne sono andato a dicembre, ti ho regalato un libro, con dentro una piccola dedica che diceva: Buon Natale, nonno, ci vediamo ad agosto, vedrai che otto mesi passano in fretta. Purtroppo mi sbagliavo. Otto mesi sono passati, ma non in fretta abbastanza. Mi hai fregato sul filo di lana, quando ormai avevo già pronte le valigie per venirti a trovare. So perfettamente quanto fossi affezionato a me e non riesco ad immaginare la tristezza che hai provato quel giorno che mi hai visto andar via. Anche se non l’hai mai fatta trapelare, nemmeno per un attimo. Hai voluto che ti svegliassi nel cuore della notte, quella notte, per potermi salutare un’ultima volta, prima che mi recassi all’aeroporto. E ogni volta che parlavamo su Skype, mi aggiornavi sul numero di giorni che mancavano al mio ritorno. Stavi facendo il countdown, mi dicevi. Ma il countdown si è interrotto sul più bello, improvvisamente, senza una ragione.

Perché davvero tu eri una delle persone più dolci e più buone che io abbia conosciuto in vita mia. E ora posso dirlo seriamente, senza retorica. Ferocemente attaccato alla vita, riuscivi sempre a scorgere il lato positivo delle cose. La tua era una tattica disarmante nella sua semplicità: vedrai che la prossima volta andrà meglio, mi dicevi. Era questa la tua filosofia di vita. Un ottimismo mai eccessivo, anzi testardamente ricercato. E avevi ragione tu. Una straordinaria forza d’animo che ti ha fatto sopravvivere, incredibilmente, per altri quattordici anni da quel giorno maledetto in cui hai perso la persona a te più cara. Quel giorno se ne era andata metà della tua vita, ma con la restante metà, nonno, sei riuscito a fare miracoli.

Ora che faccio così fatica a rimettere a posto le idee, mi si sovrappongono, impazzite, le diapositive di trent’anni passati insieme. Non so perché, ma ti vedo, settantenne, intento a giocare a calcio inseme a me e mio fratello nella cameretta, troppo piccola per non combinare danni con una pallonata maldestra. Ti vedo, ottantenne, correre (sì, correre) in un prato dinanzi alla Mole Antonelliana, a rincorrere non mi ricordo più che cosa. Ti vedo seduto in macchina, nella mitica Talbot rossa, ad aspettarmi all’uscita da scuola, subito dopo il passaggio a livello, quando ancora non avevano costruito il sottopassaggio, per farmi risparmiare dieci minuti di strada a piedi con lo zaino pesante. Ti vedo, curvo sul balcone della casa di Calimero, a raccogliere un piccolo merlo, caduto, con l’ala spezzata: chissà perché, l’avevamo chiamato Luigino. Ti vedo, novantenne, passeggiare, ingobbito ma sicuro, tra i pini di Milano Marittima con il Corriere e la Gazzetta in mano. Ti vedo seduto a un tavolo del Big Bar, anzi no, del Vip, come lo chiamavi tu, con cappuccino e brioche. Perchè non c’è niente di meglio al mondo del rito del caffè, da consumare “sedente, bollente e per neinte”. Ti vedo imprecare contro la vecchia Ford verde, quella che usavi per portarmi all’asilo, ferma, senz’acqua, in salita, sotto il sole cocente dei sentieri manzoniani della Val Sassina. Ti vedo, lo scorso anno, toccare la coda del leone di Barzio, perchè se gli tocchi la coda significa che ci tornerai un’altra volta. Ti vedo, novantaquattrenne, festeggiare il tuo compleanno, davanti ad una tavolata enorme, mostrando, come regalo, una maglietta dell’Inter con su scritto: Nino. Tu che dell’Inter, in fin dei conti, non te ne è mai fregato nulla, che la tifavi solo perché la tifiamo io e mio fratello. Che il tuo vero amore è sempre stato il Monza. Quel Monza che mai, mai una volta nella vita, ti ha regalato l’emozione di venire in serie A.

Perdonami, ma è così che ti ricorderò. Perché agli occhi di un bambino, i nonni sono quei personaggi mitologici, che nascono vecchi e muoiono vecchissimi. E tu, vecchissimo lo eri. Novantasei anni suonati, quasi novantasette. Ma solo all’anagrafe. Perchè, con la tua salute straripante e la tua lucidità, facevi invidia a tutti. E te la ridevi sotto i baffi quando i dottori, guardando impressionati i tuoi esami del sangue, ti dicevano che avevi tutti i valori in regola, molto meglio di un ragazzino, e ti stringevano la mano e le infermiere ti facevano i complimenti. E allora novantacinque, novantasei, novantasette. Che differenza poteva fare un anno in più o un anno in meno? Certo, il tempo ti aveva incurvato, ti aveva rallentato il passo, ma la mente, quella no. Quella era rimasta intatta, precisa, meticolosa. Mai ho visto una persona della tua età ragionare in modo così attento e profondo. E io lo so che, proprio per questo, ci prendevi gusto, molte volte, a fare il finto tonto. A far finta di non aver capito. A storpiare gli accenti delle parole (ah, quanto ti piaceva!) perché, se non esiste una regola, allora ognuno può scegliere di mettere l’accento dove gli pare. Con quel bonario sadismo che si può permettere solo chi ormai vive la vita in modo disinteressato, e che fa ammattire chi è troppo indaffarato a vivere per capire veramente di stare vivendo.

Allora, già che ci sono, per quanto vale, voglio chiederti scusa. Scusa per tutte quelle volte che, dentro di me, perdevo la pazienza. Ora capisco, anche se forse è troppo tardi, che tu avevi ragione, e io torto marcio.

E sono sicuro che, in questi interminabili dieci giorni di agonia, tu abbia fatto lo stesso, intraprendendo un balletto terribile con la Morte. Me la immagino, Lei che ti chiamava, che ti trascinava e tu che ti defilavi, fischiettavi, guardavi dall’altra parte e facevi finta di niente: chi? Io? Poi, alla fine, ovviamente, ha vinto Lei. Ma gliel’hai fatta sudare, nonno.

E allora io ti prego, Signore, prendilo tra le tue braccia, ma fallo delicatamente, perché è molto fragile, non vorrei che si rompesse. E poi dagli coraggio, perché chissà quanto è spaventato: volare in cielo, pensa un po’, lui, fifone com’era, che non ha mai voluto mettere piede su un aereo in vita sua. E riservagli, ti prego, un posticino, accanto a nonna Sandra. Finalmente la incontrerà di nuovo, e sarà la persona più felice del mondo. Di questo sono sicuro: da oggi ho un Angelo in più in Paradiso su cui contare.

Solo una cosa ancora, Signore: spero me la concederai. Dopo tutto non mi sembra una richiesta tanto azzardata. Il giorno che il Monza, perchè prima o poi dovrà succedere, verrà in serie A, ti chiedo di poter fare un strappo alla regola. Concedigli un giorno di permesso, ed io e lui, insieme, ci metteremo a tifare come ossessi dalla curva del Brianteo. E io lo so, sarò la persona più felice del mondo.

martedì 15 giugno 2010

De Donno: La trattativa fu gestita da lobby economico-politiche

Sembrano essere passate del tutto inosservate le dichiarazioni rilasciate qualche giorno fa dall’ex capitano del ROS Giuseppe De Donno, che, per la prima volta, in esclusiva, ha deciso di apparire in televisione e raccontare la sua verità sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. E’ successo durante la trasmissione “Complotti”, diretta da Giuseppe Cruciani e andata in onda l’8 giugno su La7 poco prima di mezzanotte. Un’ora intensa di testimonianze appassionate e ricostruzioni dettagliate, direttamente dalle parole di testimoni d’eccezione. Tra questi, appunto, l’ex capitano De Donno, braccio destro dell’allora colonnello Mario Mori, recentemente indicato da Massimo Ciancimino come uomo chiave della trattativa che avrebbe visto protagonisti da un lato i Carabinieri del ROS e dall’altro l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino. Don Vito, ha raccontato in aula il figlio Massimo, avrebbe rappresentato (a cavallo tra la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio fino al suo arresto avvenuto a fine dicembre ’92) gli interessi dei capi corleonesi di Cosa Nostra, Salvatore Riina prima e Bernardo Provenzano poi. Sul piatto, Riina avrebbe messo la revisione del maxiprocesso, la revoca del carcere duro e della confisca dei beni per i mafiosi (più tutta una serie di altre richieste secondarie stilate nel famoso papello) in cambio della cessazione della strategia stragista.

Massimo Ciancimino ha raccontato che gli incontri tra suo padre e il capitano De Donno iniziarono una decina di giorni dopo Capaci e proseguirono, in successione, sia prima che dopo Via D’Amelio. Cosa racconta De Donno in proposito? Esattamente quello che ha raccontato Massimo Ciancimino, né più né meno.


Ascoltiamolo: “Subito dopo la strage di Capaci (l’omicidio del dottor Falcone) io incontro Massimo (Ciancimino, nda) in aereo e gli chiedo di poter avere un contatto con suo padre per poter ottenere delle indicazioni utili alla nostre attività di contrasto a Cosa Nostra e Massimo mi dice che avrebbe rappresentato al padre questa mia richiesta e che mi avrebbe fatto sapere. Da lì poi nacque il rapporto con Vito Calogero Ciancimino.”



Strano, perché i primi a definire questi contatti con il termine di “trattativa” erano stati proprio Mori e De Donno, durante la loro deposizione nel processo per la strage dei Georgofili. Raccontando i propri incontri con Vito Ciancimino dinanzi alla Corte d’Assise di Firenze, il 27 gennaio 1998 Mori aveva rivelato: “Allora, (Ciancimino, nda) dice: 'Io ho preso contatto, tramite intermediario (dr. Antonino Cinà, nda), con questi signori qua (i Corleonesi, nda), ma loro sono scettici perché voi che volete, che rappresentate?' Noi non rappresentavamo nulla, se non gli ufficiali di Polizia Giudiziaria che eravamo, che cercavano di arrivare alla cattura di qualche latitante, come minimo. Ma certo non gli potevo dire che rappresentavo solo me stesso... Allora gli dissi: 'Lei non si preoccupi, lei vada avanti'. Lui capì a modo suo, fece finta di capire e comunque andò avanti. E restammo d'accordo che volevamo sviluppare questa trattativa.” E ancora: “Ciancimino mi disse: ‘Guardi, quelli accettano la trattativa, le precondizioni sono che l'intermediario sono io, Ciancimino, e che la trattativa si svolga all'estero. Voi che offrite in cambio?’ Io risposi: ‘Beh, noi offriamo questo. I vari Riina, Provenzano e soci si costituiscono e lo Stato tratterà bene loro e le loro famiglie’.” E infine: “Io pensavo, e ritengo di averlo espresso questo concetto, che Ciancimino avrebbe tirato alla lunga questa trattativa per vedere in effetti noi che cosa gli potevamo offrire come persona, non come soggetto inserito in una organizzazione.


Dello stesso tenore, ed anzi perfino più esplicite, erano state, allora, le dichiarazioni di De Donno: “Gli proponemmo (a Ciancimino, nda) di farsi tramite, per nostro conto, di una presa di contatto con gli esponenti dell'organizzazione mafiosa di Cosa nostra al fine di trovare un punto di incontro, un punto di dialogo finalizzato alla immediata cessazione di quest'attività di contrasto netto, stragista nei confronti dello Stato. E Ciancimino accettò. (...) Gli facemmo intendere che noi, nella trattativa, eravamo lì in veste di rappresentanti dello Stato”.

Oggi invece De Donno appare in televisione mantenendo un profilo decisamente più basso e negando in modo assoluto l’esistenza di trattative segrete: “Non esisteva nessuna trattativa. Lui (Ciancimino, nda) potrebbe aver compreso che il nostro fine ultimo era una discussione con Cosa Nostra che, ribadisco, non era assolutamente mai stata presa in considerazione come obiettivo del nostro lavoro. Gli chiediamo che i capi di Cosa Nostra si consegnino alla giustizia ottenendo in cambio un trattamento equo nei processi e un buon trattamento per le famiglie. Quindi gli chiediamo sostanzialmente una resa di Cosa Nostra allo Stato.”


Guai dunque a chiamarla trattativa. Era semmai una richiesta perentoria di resa totale di Cosa Nostra. Richiesta che, tra l’altro, appare alquanto audace e lascia non pochi dubbi e perplessità. Come poteva uno Stato, che in quel periodo era “in ginocchio”, secondo la definizione dello stesso Mori, presentarsi dai capi di Cosa Nostra in una posizione di forza chiedendone addirittura la consegna incondizionata? Perchè mai Cosa Nostra, nel suo periodo di massima potenza militare, avrebbe dovuto accettare una proposta simile in cambio, sostanzialmente, di nulla? Che senso aveva una richiesta del genere?


Sono dubbi sollevati anche dalla corte di assise di Firenze nel processo per la strage di via dei Georgofili: "Allo stato, infatti, non v’è nulla che faccia supporre come non veritiere le dichiarazioni dei due testi qualificati sopra menzionati (il gen. Mori ed il col. De Donno, ndr), salvo alcuni contraddizioni logiche ravvisabili nel loro racconto (non si comprende, infatti, come sia potuto accadere che lo Stato, “in ginocchio” nel 1992 - secondo le parole del gen. Mori - si sia potuto presentare a “cosa nostra” per chiederne la resa; non si comprende come Ciancimino, controparte in una trattativa fino al 18-10-92, si sia trasformato, dopo pochi giorni, in confidente dei Carabinieri; non si comprende come il gen. Mori e il cap. De Donno siano rimasti sorpresi per una richiesta di “Show down”, giunta, a quanto appare logico ritenere, addirittura in ritardo" (motivazioni sentenza di primo grado del processo per la strage di via dei Georgofili a Firenze, 6 giugno 1998).

Ma la prudenza di De Donno nel merito non può stupire più di tanto. Sia lui che Mori, a seguito delle rivelazioni di Massimo Ciancimino, sono stati da poco iscritti nel registro degli indagati dalla Procura della Repubblica di Palermo con l’accusa di violenza o minaccia a un corpo politico amministrativo. E’ chiaro che a questo punto le parole diventano pesanti come macigni. E per questo, De Donno non retrocede di un millimetro dalla versione ufficiale: l’entrata in scena di Mori sarebbe successiva alla strage di Via D’Amelio. Per la precisione, il pomeriggio del 5 agosto 1992. Spiega l’ex capitano del ROS: “La strage di Via D’Amelio produce in Vito Calogero Ciancimino la decisione di passare a vie di fatto, cioè di iniziare a collaborare seriamente con noi. Quando io colsi che lui aveva questa sensazione alzai il tiro e introdussi il colonnello Mori. Il primo incontro tra Vito Calogero Ciancimino, il colonnello Mori e me avviene il 5 agosto del ’92, poi quello successivo, a cui partecipa il colonnello Mori, è a fine agosto ’92 e di lì in successione fino ad ottobre.”


Tralasciando il fatto che il nesso tra la strage di Via D’Amelio e l’intenzione di collaborare da parte di Ciancimino non appare del tutto chiaro, la partita, ormai, da tempo si gioca quasi esclusivamente su questa data, 5 agosto 1992, sedici giorni dopo la strage di Via D’Amelio. Massimo Ciancimino ha invece dichiarato che Mori avrebbe partecipato fin da subito agli incontri con suo padre. “Almeno due o tre volte” prima del 19 luglio 1992. La cosa non è di poco conto. E’ chiaro che, nella ricostruzione degli avvenimenti, far intervenire Mori dopo la strage di Via D’Amelio ha un significato ben preciso: significa derubricare i primi contatti tra De Donno e Ciancimino a semplici abboccamenti, a tentativi di dialogo, nulla più. Significa quindi allontanare dalle spalle degli ufficiali del ROS quel gravoso fardello di un’iniziativa, l’avvio di una “trattativa”, che è stata indicata dalla sentenza BORSELLINO BIS come una delle cause esterne a Cosa Nostra dalle cui dipese la brusca accelerazione della fase esecutiva della strage di via D’Amelio: "Al di là delle buone intenzioni dei carabinieri che vi hanno preso parte, chi decise la strage dovette porsi il problema del significato da attribuire a quella mossa di rappresentanti dello Stato; il significato che vi venne attribuito, nella complessa partita che si era avviata, fu che il gioco al rialzo poteva essere pagante" (motivazioni sentenza d’appello BORSELLINO BIS sulla strage di via D’Amelio, 18 marzo 2002). Ecco perché, nonostante Massimo Ciancimino abbia testimoniato in senso assolutamente contrario, raccontando che anzi il padre si sentiva moralmente responsabile della morte del giudice (“Con questa gente non si doveva trattare”), le dichiarazioni di De Donno non possono stupire, perché in linea con la tesi difensiva da sempre strenuamente sostenuta.


Ciò che lascia un po’ perplessi, invece, è il riferimento al rapporto padre-figlio che De Donno fa subito dopo, parlando di Massimo: “Massimo Ciancimino non ha avuto nessun ruolo tranne quello di o portarci il caffè quando eravamo a colloquio con il padre o quello di contattarmi per dirmi che il padre voleva vedermi. Ma il padre, le dirò di più, non aveva assolutamente nessuna fiducia nei confronti di Massimo Ciancimino e, rispettando questa consegna, io non ho mai parlato con Massimo Ciancimino neanche negli altri incontri di quello che stavamo facendo con il padre.”


In realtà, nulla di quanto dice De Donno intacca di un solo millimetro la ricostruzione di Massimo Ciancimino, il quale non ha mai dichiarato di avere avuto un qualche ruolo importante negli incontri tra suo padre e gli ufficiali del ROS, ha riferito correttamente di non aver mai partecipato a quegli incontri ma di averli semplicemente organizzati, e ha raccontato che il padre gli parlò dei contenuti di quegli incontri sono molti anni più tardi. Vito Ciancimino non aveva nessuna fiducia nel figlio? Può darsi. Anche se, allora, appare molto strano il fatto che Massimo sia stato, a detta anche di tutti gli altri quattro fratelli maggiori, la persona da sempre più vicina e legata al padre, con cui aveva iniziato a scrivere pure un libro che avrebbe raccolto tutte le sue memorie. E d’altra parte non si vede come questo dato, ancorché fosse vero, possa minare l’attendibilità di Ciancimino jr. L’argomentazione di De Donno, in questo caso, appare decisamente debole.


Così come non pare di sostanziale importanza il fatto che De Donno ribadisca di non aver mai saputo nulla del famigerato papello: “Io non ho mai visto il papello, non ha mai visto il papello il colonnello Mori e non ci è stato mai mostrato nessun papello da Vito Calogero Ciancimino. Le dirò di più. Vito Calogero Ciancimino nei nostri incontri non ha mai parlato dell’esistenza di un papello.” A voler prendere le parole di De Donno alla lettera, questa precisazione non escluderebbe che Vito Ciancimino abbia potuto parlare ai Carabinieri dei contenuti del papello senza fare alcun riferimento al pezzo di carta in sé. Ciò che conta, è ovvio, è ciò che Don Vito ha effettivamente raccontato agli ufficiali e come ha risposto alla domanda postagli dal colonnello Mori: “Ma signor Ciancimino, ma cos'è questa storia qua? Ormai c'è muro contro muro. Da una parte c'è Cosa Nostra, dall'altra parte c'è lo Stato. Ma non si può parlare con questa gente?”.

Capire se sia esistito davvero questo famoso papello, della cui esistenza tra l’altro parlò per primo Giovanni Brusca in tempi non sospetti, o se sia autentica la copia consegnata da Massimo Ciancimino ai magistrati di Palermo su cui è scritto esplicitamente in stampatello “CONSEGNATO PERSONALMENTE AL COLONNELLO DEL ROS MARIO MORI”, diventerebbe semplicemente una nota di colore nel caso in cui venisse dimostrato che una trattativa precisa, articolata e continuata tra pezzi dello Stato e i capi di Cosa Nostra effettivamente c’è stata. Sarebbe solo l’ultimo tassello di un puzzle fin troppo chiaro. Nulla aggiunge e nulla toglie dunque questa negazione di De Donno. Il problema non è il papello in sé. Il problema è se, dei contenuti che sarebbero stati presenti nel papello, si sia parlato o meno.


Se dunque, fino a questo punto, le dichiarazioni di De Donno, lungi dallo smentire la dettagliata ricostruzione offerta da Massimo Ciancimino ai magistrati di Palermo, possono apparire abbastanza scontate e in linea con la tesi difensiva da sempre sostenuta, è il finale dell’intervista a lasciare completamente spiazzati. De Donno la butta lì, come fosse una cosa da nulla, quasi fosse ovvio e risaputo. E lo fa soppesando ancor di più le parole, cercando l’aggettivo giusto, addirittura l’avverbio adatto, quello che possa rendere la frase più esatta possibile. Ma quello che dice è devastante. Lo scenario che prospetta non può che destare sconcerto.

Dice: “Noi ci inseriamo inconsapevolmente in un terreno estremamente minato sconoscendo, chiaramente, che, verosimilmente, qualcuno stava discutendo realmente con Cosa Nostra e non per gli stessi obiettivi che noi perseguivamo. Se trattativa esisteva, probabilmente era condotta da qualche parte, sicuramente politica o rappresentativa di alcuni interessi economici di lobby, che però era realmente in grado di mantenere eventuali promesse."


E’ necessario rileggere il tutto lentamente, parola per parola, per comprendere appieno quello che il capitano ha voluto dire, il messaggio che ha voluto lanciare. Gli avverbi, pesantemente reiterati, raccontano più delle parole stesse. Noi ci inseriamo inconsapevolmente. “Inconsapevolmente”. De Donno ci sta dicendo che l’idea del ROS di avvicinare Ciancimino fu qualcosa di assolutamente spontaneo, quasi ingenuo. Non avevano idea di essersi addentrati in un terreno “estremamente” minato, come se decidere di mettersi a parlare con i capi corleonesi per intermediazione di Vito Ciancimino fosse la cosa più naturale e scontata che i due ufficiali dei Carabinieri potessero fare in quel momento. “Sconoscendo, chiaramente, che, verosimilmente, qualcuno stava discutendo realmente”. Le parole soppesate come macigni. Traduzione: è ovvio, dice De Donno, che loro non potessero sapere che, invece, alle loro spalle c’era qualcun altro che portava avanti la trattativa ad un livello superiore e con obiettivi differenti. E’ ovvio? Dunque la trattativa ci fu e fu gestita addirittura da apparati superiori? Beh, se non fosse già abbastanza chiaro, De Donno lo spiega senza mezzi termini: “Se trattativa esisteva, probabilmente era condotta da qualche parte, sicuramente politica o rappresentativa di alcuni interessi economici di lobby”.


Tra un “probabilmente”, un “sicuramente” e un “verosimilmente”, De Donno lascia cadere la bomba. Se una trattativa vera e propria ci fu, questa la sua ipotesi, essa fu gestita da interessi politico-affaristici, con i quali i ROS non hanno mai avuto a che fare. Anzi, i ROS si trovarono semplicemente in mezzo, “inconsapevolmente”, in un gioco più grande di loro. Come a dire: dopo gli ultimi sviluppi di indagine, tenendo conto anche delle dichiarazioni incrociate di Massimo Ciancimino, dell’ex ministro di Grazia e Giustizia Claudio Martelli, dell’ex presidente della Commissione Antimafia Luciano Violante, dell’ex direttore degli Affari Penali Liliana Ferraro, dell’ex segretario generale presso la Presidenza del Consiglio Fernanda Contri, fino ad arrivare alle ultime esternazioni del procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, sarà difficile continuare a smentire l’esistenza di una trattativa, ma chi di dovere sappia che le responsabilità vanno cercate altrove. Chi ha orecchie per intendere, intenda.

E nell’attesa di capire se questa nuova teoria, alquanto audace per la verità, della “doppia-trattativa”, una condotta dal ROS con fini nobili e una condotta parallelamente da imprecisate lobby di potere con fini eversivi, possa avere un qualche senso logico, la palla avvelenata viene rimbalzata prepotentemente lontano dal ROS. E anche se la notizia non ha avuto la necessaria eco mediatica, siamo certi che coloro ai quali il messaggio di De Donno era diretto, in questo momento staranno già pensando a come raccogliere e ributtare indietro quella palla. Possibilmente senza farsi troppo male.