Il 17 febbraio 2009 la VI Sezione Penale della Cassazione, presieduta dal dott. Giovanni de Roberto, respinge il ricorso presentato dalla Procura di Caltanissetta contro la decisione del giudice per le indagini preliminari (gup), il dott. Paolo Scotto di Luzio, che aveva stabilito il 'non luogo a procedere' nei confronti del colonnello dei Carabinieri Giovanni Arcangioli, accusato di aver sottratto, il 19 luglio 1992 in via D'Amelio a Palermo, l'agenda rossa del magistrato Paolo Borsellino dalla sua borsa di pelle marrone, con tutta una serie di aggravanti tra cui quella di aver favorito Cosa Nostra. Il 18 marzo 2009 venivano depositate le motivazioni della sentenza della Cassazione, che accoglieva in toto le ragioni del giudice Scotto e poneva così un macigno inamovibile sulle speranze di fare luce su uno degli episodi più inquietanti della storia della repubblica.
La vicenda era iniziata quattro anni prima, il 27 gennaio 2005, quando una fonte riservata aveva segnalato presso lo studio di un fotografo di Palermo l'esistenza di una foto che ritraeva una persona in borghese aggirarsi in via D'Amelio, negli istanti successivi all'esplosione, con una borsa in mano. Una copia della foto viene consegnata agli inquirenti dal fotografo stesso, Paolo Francesco Lannino, il 17 febbraio 2005. La persona ritratta nella foto viene subito individuata nella persona di Giovanni Arcangioli, che viene ascoltato per la prima volta il 5 maggio 2005 dando il via a quattro anni di indagini ed interrogatori, conclusisi nel nulla con il verdetto della Cassazione del febbraio 2009.
E' utile notare come proprio ora, nel momento esatto in cui lo scontro sulla riforma della giustizia è incandescente e le indagini sulle stragi del '92 e sulla presunta trattativa tra stato e mafia stanno entrando nel vivo (portate avanti da ben quattro procure della Repubblica), siano apparse in rete alcune note APCOM che rilanciavano la notizia della decisione della Cassazione, balzata dunque agli onori della cronaca con ben nove mesi di ritardo.
La notizia è di quelle forti: nella borsa del magistrato ucciso, l'agenda rossa non c'era.
Questo è quanto dice la Cassazione, ricalcando le motivazioni presentate dal giudice Scotto per stabilire il proscioglimento di Arcangioli. Motivazioni presentate addirittura il 29 aprile 2008, ovvero un anno e mezzo fa. Oggi, a sorpresa, questa notizia viene riproposta e spacciata come una primizia, come una verità processuale finalmente accertata, che spegnerebbe sul nascere ogni tipo di teoria complottista, tanto cara ai 'professionisti dell'antimafia'. E' forse un modo subdolo per tentare di delegittimare la procura di Caltanissetta, che voleva rinviare a giudizio Arcangioli e che è stata bastonata dalla Cassazione? La stessa procura di Caltanissetta che oggi ha in mano indagini delicatissime sui mandanti occulti? Il sospetto è forte.
E siccome le sentenze della Cassazione non si possono appellare, ma analizzare e criticare ovviamente sì, vogliamo qui mettere in evidenza tutte quelle incongruenze e quelle deduzioni, alcune volte palesemente superficiali, alcune volte (a nostro giudizio) addirittura surreali, che stanno alla base della decisione del giudice Paolo Scotto di Luzio e a cui la VI Sezione Penale della Cassazione, in un paio di paginette, ha dato ragione, senza sollevare alcuna ombra di dubbio.
Ai lettori il giudizio finale sulla ragionevolezza delle nostre osservazioni. In coda al tutto, si potranno trovare i link ai documenti ufficiali.
Cominciamo.
Innanzitutto è necessario sottolineare i casi in cui un gup ha la facoltà di decidere il 'non luogo a procedere'. L'art. 425 del Codice di Procedura Penale al comma 3 stabilisce che uno di questi casi è “anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l'accusa in giudizio”. Tradotto: se il pm non ha un briciolo di prova per far condannare l'imputato. La norma serve ovviamente ad evitare che si celebrino processi inutili, destinati a sicura assoluzione, con conseguente sperpero di tempo e denaro. Secondo il giudice Scotto, questo sarebbe stato proprio il caso di un eventuale processo a carico dell'allora capitano del Ros dei Carabinieri Giovanni Arcangioli. Tra le motivazioni di Scotto si legge infatti: “Sussistono nel caso una serie di elementi che si pongono tra loro in contraddizione insuperabile e tale da far ritenere che il vaglio dibattimentale delle medesime fonti di prova, ascoltate ripetutamente in fase di indagine, più di un decennio dopo lo svolgimento dei fatti e destinate ad ulteriore logorio per il tempo trascorso, non consenta di sostenere adeguatamente l'accusa in giudizio”. Tradotto: le indagini preliminari hanno già detto tutto quello che c'era da dire e un eventuale processo non potrebbe in alcun modo far luce su una vicenda troppo oscura e contraddittoria. Meglio non provarci nemmeno, a far luce. Meglio chiudere tutto in partenza.
Dopo aver presentato tali motivazioni, Scotto passa alla dimostrazione delle stesse.
I FILMATI
Parte dall'analisi di due filmati, quelli che ritraggono per pochi secondi il capitano Arcangioli camminare in via D'Amelio con una borsa di pelle marrone nella mano sinistra, una pettorina azzurra su cui si staglia uno stemma dorato dell'Arma, un marsupio nero attorno alla vita. Sono due frammenti. Il primo inquadra Arcangioli con una borsa in mano, a circa 25 metri dall'esplosione, mentre cammina verso l'uscita di Via D'Amelio. Il secondo lo inquadra a circa 60-70 metri dall'esplosione, sempre con la borsa in mano, in prossimità di via Autonomia Siciliana. L'ipotesi accusatoria è quella che Arcangioli si sia allontanato con la borsa per qualche tempo, si sia appartato per estrarre l'agenda rossa e consegnarla a ignoti o trattenerla per sé, abbia poi riposto la borsa nella macchina del magistrato ucciso, dove sarebbe stata poi raccolta dall'ispettore di polizia Francesco Paolo Maggi.
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19 luglio 1992 - Palermo, via D'Amelio: in primo piano
il capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli
Scotto cita una nota della Dia del 7 settembre 2007 dove si dice che “non è neanche possibile stabilire il tempo reale trascorso tra le immagini che inquadrano il capitano Arcangioli con la borsa in mano e quelle che lo ritraggono senza”. Questa osservazione nulla toglie all'ipotesi accusatoria descritta sopra. E' chiaro che non sia facile stabilire esattamente il tempo trascorso tra generiche immagini in cui Arcangioli appare con la borsa in mano e altre immagini in cui Arcangioli ne appare privo. Al massimo è possibile stabilirne una successione cronologica in base ad elementi esterni oggettivi (inclinazione della luce del sole, quantità di fumo presente, ecc.). Ma non è questo il punto e niente ha a che fare con i due filmati in questione. Tanto che Scotto deve prendere atto invece che la nota informativa del 27 novembre 2007 sostiene che i due filmati in esame si possano mettere in successione cronologica. Cioè Arcangioli è partito con la borsa in mano dal luogo dell'esplosione ed è arrivato fino in fondo a via D'Amelio, all'incrocio con via Autonomia Siciliana, sempre tenendo la borsa in mano.
Per il giudice Scotto tutto questo non ha alcuna valenza: “Nulla consente autonomamente di inferire circa la condotta che gli viene ascritta e in particolare di stabilire che la borsa contenesse l'agenda che poi sarebbe stata fatta sparire. (…) Quelle immagini non danno contezza di quanto tempo l'imputato avrebbe trattenuto la borsa, né da sole consentono di sostenere che questi si sia allontanato, non visto, per manipolarne il contenuto. Va inoltre rilevato che nemmeno è possibile sostenere che la borsa contenesse sicuramente l'agenda in questione”. Certo, verrebbe da osservare ironicamente, se ci fosse un filmato in cui si vede Arcangioli che apre la borsa e occulta l'agenda rossa saremmo tutti più felici e non ci sarebbe bisogno nemmeno di discutere se fare un processo o meno. Addirittura, se le telecamere fossero state a raggi X, avremmo potuto vedere direttamente se davvero dentro quella borsa c'era l'agenda rossa o meno. Peccato che, di solito, la colpevolezza di un imputato non sia così facile da dimostrare, anche a fronte di prove schiaccianti. E' chiaro che un dibattimento serve proprio per ottenere informazioni che possano corroborare o smentire quello che appare come una forte prova indiziaria. E cosa c'è di più forte di un filmato che mostra Arcangioli allontanarsi a 70 metri dal luogo dell'esplosione con la borsa in mano?
Scotto non fa un piega: “La direzione percorsa – verso Via Autonomia Siciliana – non è tale da far stabilire che l'imputato abbia sicuramente percorso tutta la Via D'Amelio, al fine precipuo di controllare il contenuto della borsa, non visto, e di celare l'agenda”. Certo, ma il sospetto è forte e oggettivamente fondato. Che senso aveva allontanarsi così tanto dal luogo dell'esplosione con la borsa in mano? Per farle prendere aria? E' un comportamento assolutamente normale o suscita qualche sospetto? O bisogna credere che Arcangioli facesse così con tutti gli oggetti che si trovava sotto mano? Li prendeva e li accatastava in via Autonomia Siciliana? Un copertone fumante qua, un pezzo di carrozzeria accartocciata là, una borsa... Avanti e indietro da Via D'Amelio senza uno scopo preciso? Dove stava portando quella borsa? E a chi? Cose evidentemente non degne di essere approfondite.
MA QUANTE BORSE AVEVA IL GIUDICE?
Il giudice Scotto introduce poi quella che secondo lui sarebbe la testimonianza più attendibile per la ricostruzione dell'accaduto: un verbale dell'ispettore di Polizia Francesco Paolo Maggi risalente al 21 dicembre 1992. Dice Scotto: “Gli unici dati certi circa una borsa appartenuta al magistrato ucciso sono costituiti dal verbale in cui si dà conto che veniva repertata, come priva di ogni rilievo investigativo, alla Procura della Repubblica di Caltanissetta il 5 novembre 1992”. La frase del giudice è a dir poco infelice. Che infatti questi siano “gli unici dati certi” sulla borsa del giudice fa quanto meno sorridere, se si pensa che Scotto sembra ignorare completamente che la borsa non fu in realtà “repertata” il 5 novembre 1992, cioè quattro mesi dopo, ma venne portata in Questura addirittura il giorno successivo, come dimostra la copia della ricevuta. Ma, a parte questo piccolo particolare, c'è un dettaglio da non trascurare nella frase del giudice: il fatto che parli di una borsa e non della borsa del giudice. Cioè, sta introducendo la tesi che poi riprenderà in seguito: la possibile esistenza di più borse tra loro identiche (almeno un paio). Sembra una idea surreale, visto che cozza contro ogni evidenza dei fatti e soprattutto contro le dichiarazioni degli stessi famigliari del giudice ucciso, ma Scotto vedremo che la insinuerà (senza mai sostenerla esplicitamente) con una certa frequenza e insistenza.
Scotto riporta un passo saliente del verbale di Maggi, secondo cui lui stesso “si avvicinava all'auto del magistrato dove un vigile del fuoco stava spegnendo detta auto e lo stesso dal sedile posteriore del mezzo in questione prelevava un borsa in pelle di colore marrone, parzialmente bruciata, il quale dopo avergli gettato dell'acqua per spegnerla, la consegnava al sottoscritto. Immediatamente informava il dr. Fassari della presenza della suddetta borsa, il quale riferiva di trasportarla presso l'ufficio del dirigente di qs. Squadra Mobile”. Scotto cita anche il fatto che, in un verbale successivo del 13 ottobre 2005, Maggi dichiara di essere intervenuto “quasi in contemporanea” ai primi mezzi dei vigili del fuoco (il primo intervento dei vigili del fuoco è delle 17:03). A corroborare la sua ipotesi, Maggi dichiara di aver visto il superstite Antonio Vullo non ancora soccorso, di essersi addentrato nella via D'Amelio, di aver notato la borsa nell'auto, di aver chiesto l'intervento di un vigile del fuoco e di aver prelevato la borsa, che ricorda essere stata “gonfia, quindi piena e pesante”.
Peccato che questa, che dovrebbe essere la prova regina secondo il giudice Scotto, cioè il fatto che Maggi fu il primo in assoluto ad entrare in possesso della borsa del giudice, è una ricostruzione palesemente falsa, che non ha alcun riscontro con tutte le altre dichiarazioni di tutti gli altri testi e soprattutto che stravolge (si spera in modo non voluto) le correzioni successive apportate dallo stesso Maggi. Maggi infatti ha poi precisato di essere sì arrivato in via D'Amelio “quasi in contemporanea con i vigili del fuoco”, ma non di non aver subito esaminato l'auto del giudice. La verità è che Maggi, per sua stessa ammissione, prima di arrivare sul luogo andò a prendere il dr. Fassari a casa sua, poi, una volta in Via D'Amelio, si attivò per soccorrere una bambina e infine fece più volte avanti e indietro in via D'Amelio aspettando che i vigili del fuoco spegnessero gli incendi. Solo allora si avvicinò alla vettura del giudice ed estrasse la borsa. E' chiaro dunque che non è possibile stabilire, come fa il giudice Scotto, che Maggi sia stato il primo a prendere nelle mani la borsa. C'era infatti tutto il tempo, per altri soggetti, di mettere mano alla stessa.
E che sia una tesi che fa a pugni con la realtà è subito dimostrato. Se veramente bisogna credere che Maggi fu il primo a prendere la borsa e ad affidarla a Fassari che la portava immediatamente in questura senza ulteriori passaggi di mano, significa che la borsa che ha in mano Arcangioli, ritratto in foto, è un'altra! Scotto sta dunque veramente asserendo che esisterebbero due distinte borse del giudice Borsellino: una prelevata da Maggi e portata immediatamente in questura, l'altra che, sbucata da non si sa bene dove, compare nelle mani di Arcangioli qualche minuto più tardi. Una tesi quanto mai bizzarra, che è subito demolita da una più realistica ricostruzione dei fatti. Si vedrà infatti che, anche tralasciando tutte le possibili incongruenze delle dichiarazioni dei vari testi, una delle poche cose incontrovertibili della vicenda è che fu Ayala il primo ad intervenire sul luogo dell'attentato e ad occuparsi immediatamente della borsa. Il quadro è confermato dalle dichiarazioni del suo agente di scorta, dal giornalista Felice Cavallaro e persino in qualche modo da Arcangioli stesso. Il giudice Scotto sottolinea il fatto che Maggi dichiarò che la borsa era “piena e pesante”, come a insinuare che dentro ci potesse ancora essere l'agenda rossa e che quindi, nel caso, sicuramente non fu Arcangioli a farla sparire. Peccato che la borsa era pesante, non certo per la presenza dell'agenda, ma perché era impregnata di acqua, gettata da un vigile del fuoco per spegnere un ritorno di fiamma.
Alla luce di questi fatti, è veramente sconcertante leggere che “gli unici dati certi circa una borsa appartenuta al magistrato ucciso sono costituiti dal verbale” di Maggi. Anzi: probabilmente è vero. Il problema è la ricostruzione deformata che Scotto ne fa. Una ricostruzione che oggettivamente non sta insieme e che arriva a sfiorare il ridicolo quando ipotizza implicitamente l'esistenza di due borse identiche. Cosa che, tra l'altro, lungi dallo scagionare Arcangioli, lo metterebbe per assurdo in una posizione ancora più sospetta. Dove avrebbe preso Arcangioli la “seconda borsa” e dove la starebbe portando?
Un ulteriore aspetto che avrebbe dovuto far insospettire Scotto, è il fatto che questa relazione di servizio fu redatta solo sei mesi dopo la strage. Un tempo enorme. Ma Scotto non solo non si insospettisce: utilizza questo particolare come un punto a favore di Arcangioli. Perchè, argomenta Scotto, prendersela tanto con Arcangioli per non aver mai redatto una relazione di servizio, quando anche altri ci hanno messo sei mesi per farne una? Ma che modo di ragionare è? Da quando in qua due mancanze si annullano fra loro? E poi: Scotto è forse l'avvocato di parte di Arcangioli? Non spetta certo al gup stabilire l'innocenza dell'imputato, soprattutto quando questa è reclamata in modo così maldestro, cioè a fronte di possibili analoghi torti altrui.
I TESTIMONI
Il giudice Scotto passa a questo punto ad analizzare le varie testimonianze.
La prima versione di Ayala
L'8 aprile 1998, in tempi dunque non sospetti, cioè sette anni prima del coinvolgimento di Arcangioli, Giuseppe Ayala, che il 19 luglio 1992 era deputato della Repubblica, in un diverso processo, aveva dichiarato: “Tornai indietro verso la blindata della procura anche perché nel frattempo un carabiniere in divisa, quasi certamente un ufficiale, se mal non ricordo aveva aperto lo sportello posteriore sinistro dell'auto. Guardammo insieme in particolare verso il sedile posteriore dove notammo tra questo e il sedile anteriore una borsa di cuoio marrone scuro con tracce di bruciacchiature e tuttavia integra, l'ufficiale tirò fuori la borsa e fece il gesto di consegnarmela. Gli feci presente che non avevo alcuna veste per riceverla e lo invitai pertanto a trattenerla per poi consegnarla ai magistrati della procura di Palermo”.
In questa prima versione è dunque un ufficiale in divisa ad aprire la portiera, ad estrarre la borsa e a fare il gesto di consegnarla ad Ayala, ma lui rifiuta di prenderla in mano.
La prima versione di Ayala, riveduta
Il 2 luglio 1998, sentito al Borsellino Ter, Ayala aveva dichiarato di essere residente all'hotel Marbella, a non più di 200 metri in linea d'aria da Via D'Amelio. Sente il boato nel silenzio della domenica pomeriggio. Si affaccia, ma non vede nulla perché davanti c'era un palazzo. Per curiosità scende giù, si reca in via D'Amelio e vede “una scena da Beirut”. “Saranno passati dieci minuti, un quarto d'ora massimo”. Dice di non sapere che lì ci abitava la madre di Paolo Borsellino. Camminando comincia a vedere pezzi di cadavere. Vede due macchine blindate, una con un'antenna lunga, di quelle che hanno solo le macchine della procura di Palermo. Pensa subito a Paolo Borsellino. “Ho cercato di guardare dentro la macchina, ma c'era molto fumo nero”. Ayala afferma che proprio in quel momento stavano arrivando i pompieri. Osserva il cratere e poi torna indietro. “Sono tornato verso la macchina, era arrivato qualcuno... parlo di forze di polizia. Ora, il mio ricordo è che a un certo punto questa persona, che probabilmente io ricordo in divisa, però non giurerei che fosse un ufficiale dei carabinieri, (...) ciò che è sicuro è che questa persona aprì lo sportello posteriore sinistro della macchina di Paolo. Guardammo dentro e c'era nel sedile posteriore la borsa con le carte di Paolo, bruciacchiata, un po' fumante anche... però si capiva sostanzialmente... lui la prese e me la consegnò. (…) Io dissi: - Guardi, non ho titolo per... La tenga lei. -”
In questa versione leggermente ritoccata, non c'è più la sicurezza di un ufficiale in divisa che apre la portiera, ma permane la certezza che sia stata questa persona ad aprire la portiera e a raccogliere la borsa. Ayala, in ogni caso, nega assolutamente di aver preso in mano e aperto la borsa. “Io poi mi sono girato, sono andato di nuovo verso questo giardinetto, e lì poi ho trovato il cadavere di Paolo. (…) Io ci ho inciampato nel cadavere di Paolo, perché non era un cadavere... era senza braccia e senza gambe”.
Ayala afferma che in quel momento lo raggiunge Felice Cavallaro, che scoppia a piangere e lo abbraccia e gli dice che tutta Palermo lo crede morto: questo perché pochissimi sapevano che lì abitava la madre di Borsellino, mentre tanti sapevano che in quelle zone abitava lui. “Tutta Palermo è piena della voce che ti hanno ammazzato!”
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La vicenda era iniziata quattro anni prima, il 27 gennaio 2005, quando una fonte riservata aveva segnalato presso lo studio di un fotografo di Palermo l'esistenza di una foto che ritraeva una persona in borghese aggirarsi in via D'Amelio, negli istanti successivi all'esplosione, con una borsa in mano. Una copia della foto viene consegnata agli inquirenti dal fotografo stesso, Paolo Francesco Lannino, il 17 febbraio 2005. La persona ritratta nella foto viene subito individuata nella persona di Giovanni Arcangioli, che viene ascoltato per la prima volta il 5 maggio 2005 dando il via a quattro anni di indagini ed interrogatori, conclusisi nel nulla con il verdetto della Cassazione del febbraio 2009.
E' utile notare come proprio ora, nel momento esatto in cui lo scontro sulla riforma della giustizia è incandescente e le indagini sulle stragi del '92 e sulla presunta trattativa tra stato e mafia stanno entrando nel vivo (portate avanti da ben quattro procure della Repubblica), siano apparse in rete alcune note APCOM che rilanciavano la notizia della decisione della Cassazione, balzata dunque agli onori della cronaca con ben nove mesi di ritardo.
La notizia è di quelle forti: nella borsa del magistrato ucciso, l'agenda rossa non c'era.
Questo è quanto dice la Cassazione, ricalcando le motivazioni presentate dal giudice Scotto per stabilire il proscioglimento di Arcangioli. Motivazioni presentate addirittura il 29 aprile 2008, ovvero un anno e mezzo fa. Oggi, a sorpresa, questa notizia viene riproposta e spacciata come una primizia, come una verità processuale finalmente accertata, che spegnerebbe sul nascere ogni tipo di teoria complottista, tanto cara ai 'professionisti dell'antimafia'. E' forse un modo subdolo per tentare di delegittimare la procura di Caltanissetta, che voleva rinviare a giudizio Arcangioli e che è stata bastonata dalla Cassazione? La stessa procura di Caltanissetta che oggi ha in mano indagini delicatissime sui mandanti occulti? Il sospetto è forte.
E siccome le sentenze della Cassazione non si possono appellare, ma analizzare e criticare ovviamente sì, vogliamo qui mettere in evidenza tutte quelle incongruenze e quelle deduzioni, alcune volte palesemente superficiali, alcune volte (a nostro giudizio) addirittura surreali, che stanno alla base della decisione del giudice Paolo Scotto di Luzio e a cui la VI Sezione Penale della Cassazione, in un paio di paginette, ha dato ragione, senza sollevare alcuna ombra di dubbio.
Ai lettori il giudizio finale sulla ragionevolezza delle nostre osservazioni. In coda al tutto, si potranno trovare i link ai documenti ufficiali.
Cominciamo.
Innanzitutto è necessario sottolineare i casi in cui un gup ha la facoltà di decidere il 'non luogo a procedere'. L'art. 425 del Codice di Procedura Penale al comma 3 stabilisce che uno di questi casi è “anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l'accusa in giudizio”. Tradotto: se il pm non ha un briciolo di prova per far condannare l'imputato. La norma serve ovviamente ad evitare che si celebrino processi inutili, destinati a sicura assoluzione, con conseguente sperpero di tempo e denaro. Secondo il giudice Scotto, questo sarebbe stato proprio il caso di un eventuale processo a carico dell'allora capitano del Ros dei Carabinieri Giovanni Arcangioli. Tra le motivazioni di Scotto si legge infatti: “Sussistono nel caso una serie di elementi che si pongono tra loro in contraddizione insuperabile e tale da far ritenere che il vaglio dibattimentale delle medesime fonti di prova, ascoltate ripetutamente in fase di indagine, più di un decennio dopo lo svolgimento dei fatti e destinate ad ulteriore logorio per il tempo trascorso, non consenta di sostenere adeguatamente l'accusa in giudizio”. Tradotto: le indagini preliminari hanno già detto tutto quello che c'era da dire e un eventuale processo non potrebbe in alcun modo far luce su una vicenda troppo oscura e contraddittoria. Meglio non provarci nemmeno, a far luce. Meglio chiudere tutto in partenza.
Dopo aver presentato tali motivazioni, Scotto passa alla dimostrazione delle stesse.
I FILMATI
Parte dall'analisi di due filmati, quelli che ritraggono per pochi secondi il capitano Arcangioli camminare in via D'Amelio con una borsa di pelle marrone nella mano sinistra, una pettorina azzurra su cui si staglia uno stemma dorato dell'Arma, un marsupio nero attorno alla vita. Sono due frammenti. Il primo inquadra Arcangioli con una borsa in mano, a circa 25 metri dall'esplosione, mentre cammina verso l'uscita di Via D'Amelio. Il secondo lo inquadra a circa 60-70 metri dall'esplosione, sempre con la borsa in mano, in prossimità di via Autonomia Siciliana. L'ipotesi accusatoria è quella che Arcangioli si sia allontanato con la borsa per qualche tempo, si sia appartato per estrarre l'agenda rossa e consegnarla a ignoti o trattenerla per sé, abbia poi riposto la borsa nella macchina del magistrato ucciso, dove sarebbe stata poi raccolta dall'ispettore di polizia Francesco Paolo Maggi.
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19 luglio 1992 - Palermo, via D'Amelio: in primo piano
il capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli
Scotto cita una nota della Dia del 7 settembre 2007 dove si dice che “non è neanche possibile stabilire il tempo reale trascorso tra le immagini che inquadrano il capitano Arcangioli con la borsa in mano e quelle che lo ritraggono senza”. Questa osservazione nulla toglie all'ipotesi accusatoria descritta sopra. E' chiaro che non sia facile stabilire esattamente il tempo trascorso tra generiche immagini in cui Arcangioli appare con la borsa in mano e altre immagini in cui Arcangioli ne appare privo. Al massimo è possibile stabilirne una successione cronologica in base ad elementi esterni oggettivi (inclinazione della luce del sole, quantità di fumo presente, ecc.). Ma non è questo il punto e niente ha a che fare con i due filmati in questione. Tanto che Scotto deve prendere atto invece che la nota informativa del 27 novembre 2007 sostiene che i due filmati in esame si possano mettere in successione cronologica. Cioè Arcangioli è partito con la borsa in mano dal luogo dell'esplosione ed è arrivato fino in fondo a via D'Amelio, all'incrocio con via Autonomia Siciliana, sempre tenendo la borsa in mano.
Per il giudice Scotto tutto questo non ha alcuna valenza: “Nulla consente autonomamente di inferire circa la condotta che gli viene ascritta e in particolare di stabilire che la borsa contenesse l'agenda che poi sarebbe stata fatta sparire. (…) Quelle immagini non danno contezza di quanto tempo l'imputato avrebbe trattenuto la borsa, né da sole consentono di sostenere che questi si sia allontanato, non visto, per manipolarne il contenuto. Va inoltre rilevato che nemmeno è possibile sostenere che la borsa contenesse sicuramente l'agenda in questione”. Certo, verrebbe da osservare ironicamente, se ci fosse un filmato in cui si vede Arcangioli che apre la borsa e occulta l'agenda rossa saremmo tutti più felici e non ci sarebbe bisogno nemmeno di discutere se fare un processo o meno. Addirittura, se le telecamere fossero state a raggi X, avremmo potuto vedere direttamente se davvero dentro quella borsa c'era l'agenda rossa o meno. Peccato che, di solito, la colpevolezza di un imputato non sia così facile da dimostrare, anche a fronte di prove schiaccianti. E' chiaro che un dibattimento serve proprio per ottenere informazioni che possano corroborare o smentire quello che appare come una forte prova indiziaria. E cosa c'è di più forte di un filmato che mostra Arcangioli allontanarsi a 70 metri dal luogo dell'esplosione con la borsa in mano?
Scotto non fa un piega: “La direzione percorsa – verso Via Autonomia Siciliana – non è tale da far stabilire che l'imputato abbia sicuramente percorso tutta la Via D'Amelio, al fine precipuo di controllare il contenuto della borsa, non visto, e di celare l'agenda”. Certo, ma il sospetto è forte e oggettivamente fondato. Che senso aveva allontanarsi così tanto dal luogo dell'esplosione con la borsa in mano? Per farle prendere aria? E' un comportamento assolutamente normale o suscita qualche sospetto? O bisogna credere che Arcangioli facesse così con tutti gli oggetti che si trovava sotto mano? Li prendeva e li accatastava in via Autonomia Siciliana? Un copertone fumante qua, un pezzo di carrozzeria accartocciata là, una borsa... Avanti e indietro da Via D'Amelio senza uno scopo preciso? Dove stava portando quella borsa? E a chi? Cose evidentemente non degne di essere approfondite.
MA QUANTE BORSE AVEVA IL GIUDICE?
Il giudice Scotto introduce poi quella che secondo lui sarebbe la testimonianza più attendibile per la ricostruzione dell'accaduto: un verbale dell'ispettore di Polizia Francesco Paolo Maggi risalente al 21 dicembre 1992. Dice Scotto: “Gli unici dati certi circa una borsa appartenuta al magistrato ucciso sono costituiti dal verbale in cui si dà conto che veniva repertata, come priva di ogni rilievo investigativo, alla Procura della Repubblica di Caltanissetta il 5 novembre 1992”. La frase del giudice è a dir poco infelice. Che infatti questi siano “gli unici dati certi” sulla borsa del giudice fa quanto meno sorridere, se si pensa che Scotto sembra ignorare completamente che la borsa non fu in realtà “repertata” il 5 novembre 1992, cioè quattro mesi dopo, ma venne portata in Questura addirittura il giorno successivo, come dimostra la copia della ricevuta. Ma, a parte questo piccolo particolare, c'è un dettaglio da non trascurare nella frase del giudice: il fatto che parli di una borsa e non della borsa del giudice. Cioè, sta introducendo la tesi che poi riprenderà in seguito: la possibile esistenza di più borse tra loro identiche (almeno un paio). Sembra una idea surreale, visto che cozza contro ogni evidenza dei fatti e soprattutto contro le dichiarazioni degli stessi famigliari del giudice ucciso, ma Scotto vedremo che la insinuerà (senza mai sostenerla esplicitamente) con una certa frequenza e insistenza.
Scotto riporta un passo saliente del verbale di Maggi, secondo cui lui stesso “si avvicinava all'auto del magistrato dove un vigile del fuoco stava spegnendo detta auto e lo stesso dal sedile posteriore del mezzo in questione prelevava un borsa in pelle di colore marrone, parzialmente bruciata, il quale dopo avergli gettato dell'acqua per spegnerla, la consegnava al sottoscritto. Immediatamente informava il dr. Fassari della presenza della suddetta borsa, il quale riferiva di trasportarla presso l'ufficio del dirigente di qs. Squadra Mobile”. Scotto cita anche il fatto che, in un verbale successivo del 13 ottobre 2005, Maggi dichiara di essere intervenuto “quasi in contemporanea” ai primi mezzi dei vigili del fuoco (il primo intervento dei vigili del fuoco è delle 17:03). A corroborare la sua ipotesi, Maggi dichiara di aver visto il superstite Antonio Vullo non ancora soccorso, di essersi addentrato nella via D'Amelio, di aver notato la borsa nell'auto, di aver chiesto l'intervento di un vigile del fuoco e di aver prelevato la borsa, che ricorda essere stata “gonfia, quindi piena e pesante”.
Peccato che questa, che dovrebbe essere la prova regina secondo il giudice Scotto, cioè il fatto che Maggi fu il primo in assoluto ad entrare in possesso della borsa del giudice, è una ricostruzione palesemente falsa, che non ha alcun riscontro con tutte le altre dichiarazioni di tutti gli altri testi e soprattutto che stravolge (si spera in modo non voluto) le correzioni successive apportate dallo stesso Maggi. Maggi infatti ha poi precisato di essere sì arrivato in via D'Amelio “quasi in contemporanea con i vigili del fuoco”, ma non di non aver subito esaminato l'auto del giudice. La verità è che Maggi, per sua stessa ammissione, prima di arrivare sul luogo andò a prendere il dr. Fassari a casa sua, poi, una volta in Via D'Amelio, si attivò per soccorrere una bambina e infine fece più volte avanti e indietro in via D'Amelio aspettando che i vigili del fuoco spegnessero gli incendi. Solo allora si avvicinò alla vettura del giudice ed estrasse la borsa. E' chiaro dunque che non è possibile stabilire, come fa il giudice Scotto, che Maggi sia stato il primo a prendere nelle mani la borsa. C'era infatti tutto il tempo, per altri soggetti, di mettere mano alla stessa.
E che sia una tesi che fa a pugni con la realtà è subito dimostrato. Se veramente bisogna credere che Maggi fu il primo a prendere la borsa e ad affidarla a Fassari che la portava immediatamente in questura senza ulteriori passaggi di mano, significa che la borsa che ha in mano Arcangioli, ritratto in foto, è un'altra! Scotto sta dunque veramente asserendo che esisterebbero due distinte borse del giudice Borsellino: una prelevata da Maggi e portata immediatamente in questura, l'altra che, sbucata da non si sa bene dove, compare nelle mani di Arcangioli qualche minuto più tardi. Una tesi quanto mai bizzarra, che è subito demolita da una più realistica ricostruzione dei fatti. Si vedrà infatti che, anche tralasciando tutte le possibili incongruenze delle dichiarazioni dei vari testi, una delle poche cose incontrovertibili della vicenda è che fu Ayala il primo ad intervenire sul luogo dell'attentato e ad occuparsi immediatamente della borsa. Il quadro è confermato dalle dichiarazioni del suo agente di scorta, dal giornalista Felice Cavallaro e persino in qualche modo da Arcangioli stesso. Il giudice Scotto sottolinea il fatto che Maggi dichiarò che la borsa era “piena e pesante”, come a insinuare che dentro ci potesse ancora essere l'agenda rossa e che quindi, nel caso, sicuramente non fu Arcangioli a farla sparire. Peccato che la borsa era pesante, non certo per la presenza dell'agenda, ma perché era impregnata di acqua, gettata da un vigile del fuoco per spegnere un ritorno di fiamma.
Alla luce di questi fatti, è veramente sconcertante leggere che “gli unici dati certi circa una borsa appartenuta al magistrato ucciso sono costituiti dal verbale” di Maggi. Anzi: probabilmente è vero. Il problema è la ricostruzione deformata che Scotto ne fa. Una ricostruzione che oggettivamente non sta insieme e che arriva a sfiorare il ridicolo quando ipotizza implicitamente l'esistenza di due borse identiche. Cosa che, tra l'altro, lungi dallo scagionare Arcangioli, lo metterebbe per assurdo in una posizione ancora più sospetta. Dove avrebbe preso Arcangioli la “seconda borsa” e dove la starebbe portando?
Un ulteriore aspetto che avrebbe dovuto far insospettire Scotto, è il fatto che questa relazione di servizio fu redatta solo sei mesi dopo la strage. Un tempo enorme. Ma Scotto non solo non si insospettisce: utilizza questo particolare come un punto a favore di Arcangioli. Perchè, argomenta Scotto, prendersela tanto con Arcangioli per non aver mai redatto una relazione di servizio, quando anche altri ci hanno messo sei mesi per farne una? Ma che modo di ragionare è? Da quando in qua due mancanze si annullano fra loro? E poi: Scotto è forse l'avvocato di parte di Arcangioli? Non spetta certo al gup stabilire l'innocenza dell'imputato, soprattutto quando questa è reclamata in modo così maldestro, cioè a fronte di possibili analoghi torti altrui.
I TESTIMONI
Il giudice Scotto passa a questo punto ad analizzare le varie testimonianze.
La prima versione di Ayala
L'8 aprile 1998, in tempi dunque non sospetti, cioè sette anni prima del coinvolgimento di Arcangioli, Giuseppe Ayala, che il 19 luglio 1992 era deputato della Repubblica, in un diverso processo, aveva dichiarato: “Tornai indietro verso la blindata della procura anche perché nel frattempo un carabiniere in divisa, quasi certamente un ufficiale, se mal non ricordo aveva aperto lo sportello posteriore sinistro dell'auto. Guardammo insieme in particolare verso il sedile posteriore dove notammo tra questo e il sedile anteriore una borsa di cuoio marrone scuro con tracce di bruciacchiature e tuttavia integra, l'ufficiale tirò fuori la borsa e fece il gesto di consegnarmela. Gli feci presente che non avevo alcuna veste per riceverla e lo invitai pertanto a trattenerla per poi consegnarla ai magistrati della procura di Palermo”.
In questa prima versione è dunque un ufficiale in divisa ad aprire la portiera, ad estrarre la borsa e a fare il gesto di consegnarla ad Ayala, ma lui rifiuta di prenderla in mano.
La prima versione di Ayala, riveduta
Il 2 luglio 1998, sentito al Borsellino Ter, Ayala aveva dichiarato di essere residente all'hotel Marbella, a non più di 200 metri in linea d'aria da Via D'Amelio. Sente il boato nel silenzio della domenica pomeriggio. Si affaccia, ma non vede nulla perché davanti c'era un palazzo. Per curiosità scende giù, si reca in via D'Amelio e vede “una scena da Beirut”. “Saranno passati dieci minuti, un quarto d'ora massimo”. Dice di non sapere che lì ci abitava la madre di Paolo Borsellino. Camminando comincia a vedere pezzi di cadavere. Vede due macchine blindate, una con un'antenna lunga, di quelle che hanno solo le macchine della procura di Palermo. Pensa subito a Paolo Borsellino. “Ho cercato di guardare dentro la macchina, ma c'era molto fumo nero”. Ayala afferma che proprio in quel momento stavano arrivando i pompieri. Osserva il cratere e poi torna indietro. “Sono tornato verso la macchina, era arrivato qualcuno... parlo di forze di polizia. Ora, il mio ricordo è che a un certo punto questa persona, che probabilmente io ricordo in divisa, però non giurerei che fosse un ufficiale dei carabinieri, (...) ciò che è sicuro è che questa persona aprì lo sportello posteriore sinistro della macchina di Paolo. Guardammo dentro e c'era nel sedile posteriore la borsa con le carte di Paolo, bruciacchiata, un po' fumante anche... però si capiva sostanzialmente... lui la prese e me la consegnò. (…) Io dissi: - Guardi, non ho titolo per... La tenga lei. -”
In questa versione leggermente ritoccata, non c'è più la sicurezza di un ufficiale in divisa che apre la portiera, ma permane la certezza che sia stata questa persona ad aprire la portiera e a raccogliere la borsa. Ayala, in ogni caso, nega assolutamente di aver preso in mano e aperto la borsa. “Io poi mi sono girato, sono andato di nuovo verso questo giardinetto, e lì poi ho trovato il cadavere di Paolo. (…) Io ci ho inciampato nel cadavere di Paolo, perché non era un cadavere... era senza braccia e senza gambe”.
Ayala afferma che in quel momento lo raggiunge Felice Cavallaro, che scoppia a piangere e lo abbraccia e gli dice che tutta Palermo lo crede morto: questo perché pochissimi sapevano che lì abitava la madre di Borsellino, mentre tanti sapevano che in quelle zone abitava lui. “Tutta Palermo è piena della voce che ti hanno ammazzato!”
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1 commento:
Complimenti. Non ho letto molti altri articoli sullo stesso argomento che siano ben argomentati.
M.
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