Quella che presentiamo qui di seguito è la ricostruzione cronologica più fedele e meticolosa che mai sia stata fatta di tutte le fasi salienti della cosiddetta “trattativa” tra i vertici di Cosa Nostra e pezzi delle Istituzioni, a partire dalla seconda settimana del mese di giungo 1992 quando il capitano del Reparto Operativo Speciale (Ros) dei Carabinieri Giuseppe De Donno incontra per la prima volta l'ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino fino a giungere ai giorni nostri. Questa ricostruzione, che si concentra principalmente sul periodo più oscuro e controverso che va dalla morte di Salvo Lima (12 marzo 1992) fino all'arresto di Totò Riina (15 gennaio 1993) passando attraverso le stragi di Capaci e Via D'Amelio, è basata su un lavoro di ricerca, di analisi e di raffronto fra vari tipi di documentazione: i verbali di interrogatorio resi alla procura di Palermo da Massimo Ciancimino (il figlio prediletto di don Vito), le deposizioni dello stesso Massimo ma anche del fratello Giovanni, del colonnello Michele Riccio e di Luciano Violante al processo a carico di Mario Mori e Mauro Obinu in corso a Palermo per favoreggiamento a Cosa Nostra, le dichiarazioni spontanee dello stesso generale Mori, articoli di giornale recuperati in archivio, pizzini inediti, manoscritti autentici, agende personali, carte e carteggi originali sequestrati dall'autorità giudiziaria, dichiarazioni ufficiali rilasciate dai vari protagonisti nel corso degli anni, sentenze passate in giudicato, eventi storici indiscutibili e fatti ormai acquisiti.
Quello che ne esce è un puzzle impressionante, ricomposto tassello per tassello, che, pur presentando ancora qualche buco nero, si lascia guardare in tutta la sua interezza. E svela una Verità che fa male, malissimo, e che ormai viene a galla in tutte le sue sfumature più indecenti. Racconta di un'Italia che per quasi un anno, dal marzo '92 fino al gennaio '93, è stata letteralmente in balia, con la presunta complicità di estesi apparati dello Stato, di un pazzo criminale analfabeta, al secolo Totò U' Curtu. E che, per i restanti tredici anni successivi al suo arresto, ha vissuto in precario equilibrio su un filo sottilissimo sospeso nel vuoto. Da un lato, a tenere il filo, oscuri personaggi in auto blu. Dall'altro, Bernardo Provenzano.
La cronologia esatta della trattativa
Giugno 1990
Il capitano del Ros Giuseppe De Donno esegue un mandato d'arresto nei confronti di Vito Ciancimino per irregolarita' nella gestione degli appalti. Viene perquisito il suo villino a Mondello (Palermo). E' in questa occasione che De Donno conosce per la prima volta sia don Vito che il figlio Massimo. Entrambi, padre e figlio, ne apprezzano l'atteggiamento molto gentile e professionale. Fra di loro si instaura un rapporto di fiducia e cordialità, tanto che, da quel momento in poi, Massimo e De Donno, coetanei, si incontreranno spesso, sia al bar che in caserma, e inizieranno a darsi del tu.
Luglio 1990
Dopo meno di un mese, la Suprema Corte di Cassazione presieduta da Corrado Carnevale annulla la misura di custodia cautelare nei confronti di Vito Ciancimino. Don Vito esce dal carcere.
Prima metà del 1991
Vito Ciancimino si trova nella sua abitazione romana di Via San Sebastianello 9 a pochi passi da Piazza di Spagna: su di lui pende un divieto di soggiorno a Palermo. Don Vito ordina al figlio Massimo di scendere a Palermo, di recarsi a casa di Pino Lipari a San Vito Lo Capo e di farsi consegnare una busta. La cosa è agevolata dal fatto che Massimo è fidanzato con la figlia di Lipari, Rossana. Ad attenderlo ci sono sia Pino Lipari che Bernardo Provenzano. Gli consegnano la busta, chiusa ma non incollata. Massimo la riporta al padre. La aprono e la leggono insieme. Don Vito non è sorpreso: se l'aspettava. La lettera è indirizzata al dottor Marcello Dell'Utri e contiene esplicite minacce all'incolumità dei figli di Berlusconi. Don Vito ha il compito di dare il suo parere sulla missiva e poi di consegnarne una copia ad un certo signor Franco.
E' bene qui aprire una piccola parentesi su questo oscuro personaggio, la cui presenza sarà costante durante le varie fasi della trattativa. Il nome con cui Massimo Ciancimino è solito chiamarlo (l'ha memorizzato così sul cellulare) è Franco. Così glielo ha presentato suo padre. Don Vito invece, nei suoi incontri privati, lo chiama Carlo. Essendo entrambi, molto probabilmente, nomi di fantasia utilizzati per coprire l'identità del personaggio, lo chiameremo d'ora in poi col nome ormai giornalisticamente più diffuso, ovvero Franco. Residente a Roma, all'epoca tra i 45 e i 50 anni, brizzolato, occhiale quadrato, senza barba né baffi, molto alto, con tre-quattro passaporti, il signor Franco è uno degli uomini più potenti all'interno dei Servizi Segreti, in contatto con i piani alti delle istituzioni e in collegamento diretto con Bernardo Provenzano. Gira in Mercedes blu per le vie di Roma. Tanto per dire, questo signor Franco, insieme a don Vito, incontrerà almeno un paio di volte, in via di Villa Massimo e in Via del Tritone a Roma, gli ex Alti Commissari per la lotta alla mafia, il dottor Emanuele De Francesco e il dottor Domenico Sica. La conoscenza tra Franco e la famiglia Ciancimino risale addirittura agli anni '70, ma Massimo continuerà a vederlo fino alla morte del padre nel 2002. Massimo si dice sicuro che il signor Franco sia tuttora in vita.
15 Dicembre 1991
Gaspare Mutolo, mafioso affiliato alla famiglia di Partanna Mondello, agli arresti nel centro clinico di Pisa, incontra durante un colloquio riservato Giovanni Falcone al quale comunica la sua intenzione di diventare collaboratore di giustizia. Falcone prende atto della scelta di Mutolo ma lo informa che, in qualità di Direttore degli affari penali al ministero di Grazia e Giustizia, non potrà interrogarlo di persona ma troverà un valido sostituto al quale affidarlo. Mutolo non sa se iniziare la collaborazione perché è disposto a farlo solo con una persona di assoluta fiducia e per questo aveva deciso di affidarsi a Falcone. Il giudice spiega allora a Mutolo l'importanza del suo lavoro a Roma al ministero e cerca di convincerlo a non perdere l’opportunità della collaborazione. Mutolo si riserva di decidere. Falcone e Mutolo si lasciano con l’impegno di non comunicare a nessuno il contenuto della discussione. Mutolo si mostra subito estremamente preoccupato per una possibile fuga di notizie in ambienti istituzionali. “Purtroppo anche nel suo ufficio ci sono amici dei mafiosi”, dice Mutolo al giudice Falcone facendogli espressamente i nomi di “Mimmo e Bruno”. Falcone capisce che si tratta rispettivamente di Domenico Signorino e Bruno Contrada e promette che, in caso Mutolo decida di collaborare, troverà un collega serio e fidato che possa occuparsi del suo caso.
30 gennaio 1992
La Cassazione conferma le condanne del maxiprocesso istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Gli ergastoli comminati alla cupola di Cosa Nostra diventano definitivi.
12 marzo 1992
L'eurodeputato democristiano Salvo Lima, proconsole del primo ministro Giulio Andreotti in Sicilia, viene assassinato a Mondello (Palermo). In macchina con lui c'è anche Nando Liggio, che assiste alla scena dell'esecuzione, una delle più terribili di sempre. Lima ha infatti il tempo di capire esattamente a cosa stia andando incontro: si accorge dell'agguato, scende dalla macchina, tenta di scappare, i sicari lo inseguono per almeno un paio di minuti e poi lo freddano a colpi di pistola. Giovanni Ciancimino, l'altro figlio di don Vito, riferisce che il padre, subito dopo l'omicidio, era molto provato e spaventato. Era convinto infatti che avrebbe fatto la stessa fine di Lima. “Lui diceva sempre: - Chissà se ci rivedremo di nuovo... -” Don Vito non ritiene nemmeno prudente scendere a Palermo per i funerali. Ci manda Massimo a portare le sue condoglianze.
15 marzo 1992
Massimo Ciancimino viene contattato dallo zio Giuseppe Lisotta. Gli riferisce che Nando Liggio chiede un incontro immediato con suo padre. Ha visto in faccia gli assassini di Lima ed ora è terrorizzato, si nasconde e non esce più nemmeno di casa. Massimo torna a Roma e comunica la richiesta al padre.
Terza settimana di marzo 1992
Don Vito, nonostante i timori, decide di scendere a Palermo. Incontra prima Lisotta e poi Provenzano in un appartamento in via Leonardo da Vinci. E' un incontro di fondamentale importanza, “un incontro clou” come lo definirà Massimo. Riina aveva appena mandato a dire a Provenzano di non preoccuparsi delle possibili reazioni dello Stato all'omicidio Lima, perché lui aveva tutto sotto controllo. Anzi, avrebbe dovuto spargere la voce, per dimostrare quale fine poteva fare chi non rispettava i patti. Di fronte a don Vito, Provenzano esterna tutto il suo disappunto: “Riina sta prendendo una piega che non mi piace. Gli hanno riempito la testa di minchiate. Qualcuno gli ha promesso, garantito qualcosa di grosso, veramente grosso. Ha intenzioni brutte. Anch'io, siccome prevedo che ci saranno gravi conseguenze, ho fatto rientrare la mia famiglia in Italia, perché prevedo che ci saranno reazioni da parte dello Stato”. Sia Provenzano che don Vito concordano sul punto: notano una vena di follia nell'atteggiamento di Riina. Provenzano, molto lucidamente, capisce che di lì a poco la situazione sarebbe precipitata. Sa che Riina non ha intenzione di fermarsi nel suo attacco allo Stato e il suo intento è quello di “tagliare certi rami secchi”, ovvero rompere quei legami politici stantii da cui ormai Cosa Nostra non può più trarre alcun giovamento. Per la prima volta, Provenzano mette in guardia don Vito dall'escalation criminale che frulla nella mente malata di Riina: l'omicidio Lima rappresenta la chiusura di vecchi rapporti e l'inizio di nuovi. Ma soprattutto: Riina ha in mano una lunga lista di nomi di politici e magistrati da far fuori. Don Vito rimane profondamente colpito dalle parole di Provenzano. Mai aveva pensato che Cosa Nostra potesse addentrarsi in una "strategia" a lungo termine. La stessa parola "strategia" era estranea al vocabolario mafioso. Cosa Nostra aveva sempre agito secondo una logica impulsiva, di azione-reazione. Evidentemente qualcosa era cambiato. Questa non era piu', solamente, mafia.
E cosa intende allora Provenzano quando dice: “Qualcuno gli ha promesso qualcosa di grosso”? Don Vito ne parlerà personalmente a Massimo nel 2000. Secondo lui, Riina, ai tempi dell'omicidio Lima, già aveva trovato nuovi referenti che l'avevano assecondato nel suo folle piano e che in qualche modo l'avevano utilizzato per dare la spallata definitiva alla già traballante Prima Repubblica. Il “grosso progetto”, secondo don Vito, era infatti quello di porre le condizioni per far nascere un grande movimento elettorale di centro, che prendesse il posto di quello che erano i partiti di riferimento di allora, travolti dallo scandalo di Tangentopoli. La mafia doveva smettere di dipendere dalla politica. Doveva iniziare a fare politica. “Oggi come oggi – racconterà don Vito pochi mesi prima di morire - mi rendo conto che infine capisco quale era il piatto della bilancia: la nascita di questa grande, nuova formazione di Centro che oggi ha un peso e che da quegli anni governa costantemente le sorti del paese”.
24 aprile 1992
Crolla il governo. Il Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, travolto dalle polemiche seguite all'omicidio Lima, rassegna le sue dimissioni al Presidente della Repubblica Francesco Cossiga.
26 aprile 1992
Due giorni dopo, lo stesso Cossiga si rivolge alla nazione con un discorso televisivo a reti unificate e si dimette pubblicamente. Lo Stato è in ginocchio.
18 maggio 1992
Giovanni Falcone, Vito Ciancimino e il figlio Massimo si ritrovano casualmente sullo stesso aereo da Palermo a Roma. Don Vito è una vecchia conoscenza di Falcone. L'aveva fatto arrestare nel lontano '84. Scherzo del destino. Non si rivedranno mai più.
23 maggio 1992
Falcone torna da Roma e ad attenderlo allo svincolo di Capaci c'è una carica di tritolo che uccide lui, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta, Rocco Di Cillo, Antonino Montinaro e Vito Schifani.
25 maggio 1992
Dopo innumerevoli fumate nere viene eletto il nuovo capo dello stato. Contro tutti i pronostici che vedevano Giulio Andreotti favorito, viene scelto a sorpresa Oscar Luigi Scalfaro.
28 maggio 1992
In occasione della presentazione di un libro, il ministro Vincenzo Scotti candida pubblicamente Paolo Borsellino al vertice della Superprocura Antimafia. Borsellino non la prende bene. Esporlo in quel modo equivale a metterlo al centro del mirino mafioso. Infatti, uno dei possibili moventi per la strage di Capaci era proprio l'aver impedito la nomina di Falcone a Superprocuratore Nazionale Antimafia. Calogero Pulci, collaboratore di giustizia, racconterà che la sera di quello stesso giorno si trovava a tavola con altri mafiosi quando il TG3 trasmise le immagini della conferenza stampa di Scotti e Martelli. All’udire le loro parole, Piddu Madonia esclama: “E murì Bursellinu”. Pochi giorni dopo, Borsellino commenterà l’uscita di Scotti in un colloquio con il tenente Carmelo Canale: “Hanno messo l’osso davanti ai cani”.
30 maggio 1992
Massimo Ciancimino e il capitano del Ros Giuseppe De Donno si incontrano casualmente nell'area del check-in dell'aeroporto di Fiumicino. Entrambi devono prendere lo stesso volo Roma-Palermo. De Donno chiede alla hostess di trovare un posto vicino per i due. Viaggeranno accanto per tutta la durata del volo. Parlando della strage di Capaci, Massimo rivela a De Donno che il padre è rimasto molto scosso e gli ha riferito: “Questa non è più mafia. Questo è terrorismo!”. De Donno chiede a Massimo se suo padre sarebbe disposto a fare una chiacchierata con lui e con il suo superiore Mario Mori. Non in veste ufficiale ovviamente, ma in veste confidenziale. Gli lascia il suo numero di cellulare perché lo ricontatti al più presto.
1 giugno 1992
Massimo torna a Roma dopo il weekend passato a Palermo e riferisce al padre il contenuto del colloquio con il capitano De Donno. Prevede una reazione negativa da parte del padre, che era sempre stato allergico agli uomini in divisa. Invece, in modo quasi insolito, don Vito non appare meravigliato della proposta di De Donno e anzi dice di voler prendersi un paio di giorni per pensarci su con calma.
Prima settimana di giugno 1992
Provenzano passa a trovare don Vito nella sua abitazione romana. L'incontro era già stato programmato da tempo, ma il momento è propizio per parlare della trattativa. Don Vito infatti chiede a Provenzano consigli su come muoversi e vuole da lui un'autorizzazione ufficiale a parlare con i Carabinieri. Il boss dà il via libera a don Vito a trattare. Provenzano infatti non ha digerito le morti di Salvo Lima e Giovanni Falcone. Si è convinto ormai che Riina sia un pazzo da fermare a tutti i costi o porterà alla dissoluzione di Cosa Nostra in breve tempo. Nonostante le diffidenze verso l'Arma, considera la trattativa come l'unica strada percorribile: “Va bene, facciamo un tentativo, prova a trattare, prova a proporti da mediatore tra Riina, Cinà e i Carabinieri e vediamo cosa succede”. Provenzano da quel momento in poi seguirà l'evolversi della trattativa dall'esterno e verrà costantemente informato da don Vito dell'evolversi degli eventi.
Appena congedato Provenzano, don Vito, nella stessa giornata, manda a chiamare anche il signor Franco. Stessi discorsi, stesse autorizzazioni richieste. Anche Franco è d'accordo: sarà lui personalmente a gestire la trattativa, ma ad un livello più alto, facendo da anello di raccordo tra istituzioni e Cosa Nostra. Una sorta di garante esterno che però si terrà rigorosamente fuori dalla melma delle richieste e contro-richieste. Per quello ci sono i Carabinieri, che verranno mandati avanti a compiere il lavoro sporco.
Ottenuto il via libera, don Vito ordina a Massimo di contattare il capitano De Donno per stabilire immediatamente un appuntamento. Il giorno successivo, Massimo e De Donno si incontrano a Roma in zona Parioli. Parlottano. De Donno gli dice che lo richiamerà il giorno dopo. E così fa: il capitano del Ros spiega a Massimo che la loro idea è quella di costruire "un canale preferenziale e privilegiato” per poter interloquire con i vertici di Cosa Nostra tramite una persona stimata come suo padre. La proposta messa sul piatto dai Carabinieri è la resa totale e incondizionata di Cosa Nostra e l'auto-consegna dei superlatitanti. In cambio, lo Stato avrebbe assicurato agevolazioni alle famiglie dei mafiosi (mogli e figli), avrebbe avuto un occhio di riguardo per i loro patrimoni e lo stesso don Vito ne avrebbe tratto vantaggi personali in termini di agevolazioni processuali. Massimo è dubbioso, vuole garanzie, teme per la sua vita. Se viene fuori solo una parola sul fatto che sta facendo da tramite tra i Carabinieri e Vito Ciancimino per la cattura dei superlatitanti, è virtualmente un uomo morto. De Donno lo tranquillizza, gli assicura che nessuna notizia su questa trattativa sarebbe mai venuta fuori. Né ora né mai. Gli consiglia di prendere minime precauzioni e di viaggiare in areo in incognito con il nome “Cianci”. Alla fine Massimo si convince e organizza l'incontro con il padre a Roma in via San Sebastianello 9. La trattativa è ufficialmente avviata.
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La cronologia esatta della trattativa
Giugno 1990
Il capitano del Ros Giuseppe De Donno esegue un mandato d'arresto nei confronti di Vito Ciancimino per irregolarita' nella gestione degli appalti. Viene perquisito il suo villino a Mondello (Palermo). E' in questa occasione che De Donno conosce per la prima volta sia don Vito che il figlio Massimo. Entrambi, padre e figlio, ne apprezzano l'atteggiamento molto gentile e professionale. Fra di loro si instaura un rapporto di fiducia e cordialità, tanto che, da quel momento in poi, Massimo e De Donno, coetanei, si incontreranno spesso, sia al bar che in caserma, e inizieranno a darsi del tu.
Luglio 1990
Dopo meno di un mese, la Suprema Corte di Cassazione presieduta da Corrado Carnevale annulla la misura di custodia cautelare nei confronti di Vito Ciancimino. Don Vito esce dal carcere.
Prima metà del 1991
Vito Ciancimino si trova nella sua abitazione romana di Via San Sebastianello 9 a pochi passi da Piazza di Spagna: su di lui pende un divieto di soggiorno a Palermo. Don Vito ordina al figlio Massimo di scendere a Palermo, di recarsi a casa di Pino Lipari a San Vito Lo Capo e di farsi consegnare una busta. La cosa è agevolata dal fatto che Massimo è fidanzato con la figlia di Lipari, Rossana. Ad attenderlo ci sono sia Pino Lipari che Bernardo Provenzano. Gli consegnano la busta, chiusa ma non incollata. Massimo la riporta al padre. La aprono e la leggono insieme. Don Vito non è sorpreso: se l'aspettava. La lettera è indirizzata al dottor Marcello Dell'Utri e contiene esplicite minacce all'incolumità dei figli di Berlusconi. Don Vito ha il compito di dare il suo parere sulla missiva e poi di consegnarne una copia ad un certo signor Franco.
E' bene qui aprire una piccola parentesi su questo oscuro personaggio, la cui presenza sarà costante durante le varie fasi della trattativa. Il nome con cui Massimo Ciancimino è solito chiamarlo (l'ha memorizzato così sul cellulare) è Franco. Così glielo ha presentato suo padre. Don Vito invece, nei suoi incontri privati, lo chiama Carlo. Essendo entrambi, molto probabilmente, nomi di fantasia utilizzati per coprire l'identità del personaggio, lo chiameremo d'ora in poi col nome ormai giornalisticamente più diffuso, ovvero Franco. Residente a Roma, all'epoca tra i 45 e i 50 anni, brizzolato, occhiale quadrato, senza barba né baffi, molto alto, con tre-quattro passaporti, il signor Franco è uno degli uomini più potenti all'interno dei Servizi Segreti, in contatto con i piani alti delle istituzioni e in collegamento diretto con Bernardo Provenzano. Gira in Mercedes blu per le vie di Roma. Tanto per dire, questo signor Franco, insieme a don Vito, incontrerà almeno un paio di volte, in via di Villa Massimo e in Via del Tritone a Roma, gli ex Alti Commissari per la lotta alla mafia, il dottor Emanuele De Francesco e il dottor Domenico Sica. La conoscenza tra Franco e la famiglia Ciancimino risale addirittura agli anni '70, ma Massimo continuerà a vederlo fino alla morte del padre nel 2002. Massimo si dice sicuro che il signor Franco sia tuttora in vita.
15 Dicembre 1991
Gaspare Mutolo, mafioso affiliato alla famiglia di Partanna Mondello, agli arresti nel centro clinico di Pisa, incontra durante un colloquio riservato Giovanni Falcone al quale comunica la sua intenzione di diventare collaboratore di giustizia. Falcone prende atto della scelta di Mutolo ma lo informa che, in qualità di Direttore degli affari penali al ministero di Grazia e Giustizia, non potrà interrogarlo di persona ma troverà un valido sostituto al quale affidarlo. Mutolo non sa se iniziare la collaborazione perché è disposto a farlo solo con una persona di assoluta fiducia e per questo aveva deciso di affidarsi a Falcone. Il giudice spiega allora a Mutolo l'importanza del suo lavoro a Roma al ministero e cerca di convincerlo a non perdere l’opportunità della collaborazione. Mutolo si riserva di decidere. Falcone e Mutolo si lasciano con l’impegno di non comunicare a nessuno il contenuto della discussione. Mutolo si mostra subito estremamente preoccupato per una possibile fuga di notizie in ambienti istituzionali. “Purtroppo anche nel suo ufficio ci sono amici dei mafiosi”, dice Mutolo al giudice Falcone facendogli espressamente i nomi di “Mimmo e Bruno”. Falcone capisce che si tratta rispettivamente di Domenico Signorino e Bruno Contrada e promette che, in caso Mutolo decida di collaborare, troverà un collega serio e fidato che possa occuparsi del suo caso.
30 gennaio 1992
La Cassazione conferma le condanne del maxiprocesso istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Gli ergastoli comminati alla cupola di Cosa Nostra diventano definitivi.
12 marzo 1992
L'eurodeputato democristiano Salvo Lima, proconsole del primo ministro Giulio Andreotti in Sicilia, viene assassinato a Mondello (Palermo). In macchina con lui c'è anche Nando Liggio, che assiste alla scena dell'esecuzione, una delle più terribili di sempre. Lima ha infatti il tempo di capire esattamente a cosa stia andando incontro: si accorge dell'agguato, scende dalla macchina, tenta di scappare, i sicari lo inseguono per almeno un paio di minuti e poi lo freddano a colpi di pistola. Giovanni Ciancimino, l'altro figlio di don Vito, riferisce che il padre, subito dopo l'omicidio, era molto provato e spaventato. Era convinto infatti che avrebbe fatto la stessa fine di Lima. “Lui diceva sempre: - Chissà se ci rivedremo di nuovo... -” Don Vito non ritiene nemmeno prudente scendere a Palermo per i funerali. Ci manda Massimo a portare le sue condoglianze.
15 marzo 1992
Massimo Ciancimino viene contattato dallo zio Giuseppe Lisotta. Gli riferisce che Nando Liggio chiede un incontro immediato con suo padre. Ha visto in faccia gli assassini di Lima ed ora è terrorizzato, si nasconde e non esce più nemmeno di casa. Massimo torna a Roma e comunica la richiesta al padre.
Terza settimana di marzo 1992
Don Vito, nonostante i timori, decide di scendere a Palermo. Incontra prima Lisotta e poi Provenzano in un appartamento in via Leonardo da Vinci. E' un incontro di fondamentale importanza, “un incontro clou” come lo definirà Massimo. Riina aveva appena mandato a dire a Provenzano di non preoccuparsi delle possibili reazioni dello Stato all'omicidio Lima, perché lui aveva tutto sotto controllo. Anzi, avrebbe dovuto spargere la voce, per dimostrare quale fine poteva fare chi non rispettava i patti. Di fronte a don Vito, Provenzano esterna tutto il suo disappunto: “Riina sta prendendo una piega che non mi piace. Gli hanno riempito la testa di minchiate. Qualcuno gli ha promesso, garantito qualcosa di grosso, veramente grosso. Ha intenzioni brutte. Anch'io, siccome prevedo che ci saranno gravi conseguenze, ho fatto rientrare la mia famiglia in Italia, perché prevedo che ci saranno reazioni da parte dello Stato”. Sia Provenzano che don Vito concordano sul punto: notano una vena di follia nell'atteggiamento di Riina. Provenzano, molto lucidamente, capisce che di lì a poco la situazione sarebbe precipitata. Sa che Riina non ha intenzione di fermarsi nel suo attacco allo Stato e il suo intento è quello di “tagliare certi rami secchi”, ovvero rompere quei legami politici stantii da cui ormai Cosa Nostra non può più trarre alcun giovamento. Per la prima volta, Provenzano mette in guardia don Vito dall'escalation criminale che frulla nella mente malata di Riina: l'omicidio Lima rappresenta la chiusura di vecchi rapporti e l'inizio di nuovi. Ma soprattutto: Riina ha in mano una lunga lista di nomi di politici e magistrati da far fuori. Don Vito rimane profondamente colpito dalle parole di Provenzano. Mai aveva pensato che Cosa Nostra potesse addentrarsi in una "strategia" a lungo termine. La stessa parola "strategia" era estranea al vocabolario mafioso. Cosa Nostra aveva sempre agito secondo una logica impulsiva, di azione-reazione. Evidentemente qualcosa era cambiato. Questa non era piu', solamente, mafia.
E cosa intende allora Provenzano quando dice: “Qualcuno gli ha promesso qualcosa di grosso”? Don Vito ne parlerà personalmente a Massimo nel 2000. Secondo lui, Riina, ai tempi dell'omicidio Lima, già aveva trovato nuovi referenti che l'avevano assecondato nel suo folle piano e che in qualche modo l'avevano utilizzato per dare la spallata definitiva alla già traballante Prima Repubblica. Il “grosso progetto”, secondo don Vito, era infatti quello di porre le condizioni per far nascere un grande movimento elettorale di centro, che prendesse il posto di quello che erano i partiti di riferimento di allora, travolti dallo scandalo di Tangentopoli. La mafia doveva smettere di dipendere dalla politica. Doveva iniziare a fare politica. “Oggi come oggi – racconterà don Vito pochi mesi prima di morire - mi rendo conto che infine capisco quale era il piatto della bilancia: la nascita di questa grande, nuova formazione di Centro che oggi ha un peso e che da quegli anni governa costantemente le sorti del paese”.
24 aprile 1992
Crolla il governo. Il Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, travolto dalle polemiche seguite all'omicidio Lima, rassegna le sue dimissioni al Presidente della Repubblica Francesco Cossiga.
26 aprile 1992
Due giorni dopo, lo stesso Cossiga si rivolge alla nazione con un discorso televisivo a reti unificate e si dimette pubblicamente. Lo Stato è in ginocchio.
18 maggio 1992
Giovanni Falcone, Vito Ciancimino e il figlio Massimo si ritrovano casualmente sullo stesso aereo da Palermo a Roma. Don Vito è una vecchia conoscenza di Falcone. L'aveva fatto arrestare nel lontano '84. Scherzo del destino. Non si rivedranno mai più.
23 maggio 1992
Falcone torna da Roma e ad attenderlo allo svincolo di Capaci c'è una carica di tritolo che uccide lui, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta, Rocco Di Cillo, Antonino Montinaro e Vito Schifani.
25 maggio 1992
Dopo innumerevoli fumate nere viene eletto il nuovo capo dello stato. Contro tutti i pronostici che vedevano Giulio Andreotti favorito, viene scelto a sorpresa Oscar Luigi Scalfaro.
28 maggio 1992
In occasione della presentazione di un libro, il ministro Vincenzo Scotti candida pubblicamente Paolo Borsellino al vertice della Superprocura Antimafia. Borsellino non la prende bene. Esporlo in quel modo equivale a metterlo al centro del mirino mafioso. Infatti, uno dei possibili moventi per la strage di Capaci era proprio l'aver impedito la nomina di Falcone a Superprocuratore Nazionale Antimafia. Calogero Pulci, collaboratore di giustizia, racconterà che la sera di quello stesso giorno si trovava a tavola con altri mafiosi quando il TG3 trasmise le immagini della conferenza stampa di Scotti e Martelli. All’udire le loro parole, Piddu Madonia esclama: “E murì Bursellinu”. Pochi giorni dopo, Borsellino commenterà l’uscita di Scotti in un colloquio con il tenente Carmelo Canale: “Hanno messo l’osso davanti ai cani”.
30 maggio 1992
Massimo Ciancimino e il capitano del Ros Giuseppe De Donno si incontrano casualmente nell'area del check-in dell'aeroporto di Fiumicino. Entrambi devono prendere lo stesso volo Roma-Palermo. De Donno chiede alla hostess di trovare un posto vicino per i due. Viaggeranno accanto per tutta la durata del volo. Parlando della strage di Capaci, Massimo rivela a De Donno che il padre è rimasto molto scosso e gli ha riferito: “Questa non è più mafia. Questo è terrorismo!”. De Donno chiede a Massimo se suo padre sarebbe disposto a fare una chiacchierata con lui e con il suo superiore Mario Mori. Non in veste ufficiale ovviamente, ma in veste confidenziale. Gli lascia il suo numero di cellulare perché lo ricontatti al più presto.
1 giugno 1992
Massimo torna a Roma dopo il weekend passato a Palermo e riferisce al padre il contenuto del colloquio con il capitano De Donno. Prevede una reazione negativa da parte del padre, che era sempre stato allergico agli uomini in divisa. Invece, in modo quasi insolito, don Vito non appare meravigliato della proposta di De Donno e anzi dice di voler prendersi un paio di giorni per pensarci su con calma.
Prima settimana di giugno 1992
Provenzano passa a trovare don Vito nella sua abitazione romana. L'incontro era già stato programmato da tempo, ma il momento è propizio per parlare della trattativa. Don Vito infatti chiede a Provenzano consigli su come muoversi e vuole da lui un'autorizzazione ufficiale a parlare con i Carabinieri. Il boss dà il via libera a don Vito a trattare. Provenzano infatti non ha digerito le morti di Salvo Lima e Giovanni Falcone. Si è convinto ormai che Riina sia un pazzo da fermare a tutti i costi o porterà alla dissoluzione di Cosa Nostra in breve tempo. Nonostante le diffidenze verso l'Arma, considera la trattativa come l'unica strada percorribile: “Va bene, facciamo un tentativo, prova a trattare, prova a proporti da mediatore tra Riina, Cinà e i Carabinieri e vediamo cosa succede”. Provenzano da quel momento in poi seguirà l'evolversi della trattativa dall'esterno e verrà costantemente informato da don Vito dell'evolversi degli eventi.
Appena congedato Provenzano, don Vito, nella stessa giornata, manda a chiamare anche il signor Franco. Stessi discorsi, stesse autorizzazioni richieste. Anche Franco è d'accordo: sarà lui personalmente a gestire la trattativa, ma ad un livello più alto, facendo da anello di raccordo tra istituzioni e Cosa Nostra. Una sorta di garante esterno che però si terrà rigorosamente fuori dalla melma delle richieste e contro-richieste. Per quello ci sono i Carabinieri, che verranno mandati avanti a compiere il lavoro sporco.
Ottenuto il via libera, don Vito ordina a Massimo di contattare il capitano De Donno per stabilire immediatamente un appuntamento. Il giorno successivo, Massimo e De Donno si incontrano a Roma in zona Parioli. Parlottano. De Donno gli dice che lo richiamerà il giorno dopo. E così fa: il capitano del Ros spiega a Massimo che la loro idea è quella di costruire "un canale preferenziale e privilegiato” per poter interloquire con i vertici di Cosa Nostra tramite una persona stimata come suo padre. La proposta messa sul piatto dai Carabinieri è la resa totale e incondizionata di Cosa Nostra e l'auto-consegna dei superlatitanti. In cambio, lo Stato avrebbe assicurato agevolazioni alle famiglie dei mafiosi (mogli e figli), avrebbe avuto un occhio di riguardo per i loro patrimoni e lo stesso don Vito ne avrebbe tratto vantaggi personali in termini di agevolazioni processuali. Massimo è dubbioso, vuole garanzie, teme per la sua vita. Se viene fuori solo una parola sul fatto che sta facendo da tramite tra i Carabinieri e Vito Ciancimino per la cattura dei superlatitanti, è virtualmente un uomo morto. De Donno lo tranquillizza, gli assicura che nessuna notizia su questa trattativa sarebbe mai venuta fuori. Né ora né mai. Gli consiglia di prendere minime precauzioni e di viaggiare in areo in incognito con il nome “Cianci”. Alla fine Massimo si convince e organizza l'incontro con il padre a Roma in via San Sebastianello 9. La trattativa è ufficialmente avviata.
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