Il 5 novembre 2002 entrava in vigore la legge n.248, detta legge Cirami, dal nome del suo ideatore, il senatore Melchiorre Cirami. Divenne immediatamente il fiore all'occhiello delle famosi leggi-vergogna, approvate in serie e a tappe forzate dal governo Berlusconi II per tentare in tutti modi di fermare i due procedimenti giudiziari più pericolosi a carico dello stesso presidente del consiglio, il processo Imi-Sir e il lodo-Mondadori, in cui Silvio Berlusconi era indagato per aver comprato delle sentenze a lui favorevoli corrompendo tre magistrati romani, il capo dei gip Renato Squillante, i giudici Vittorio Metta e Filippo Verde, grazie alla mediazione di due avvocati-faccendieri, Attilio Pacifico e Cesare Previti.
La legge Cirami andava a modificare l'articolo 45 del codice di procedura penale rendendo possibile il trasferimento di un processo ad altra sede "quando gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili, pregiudicano la libera determinazione delle persone che partecipano al processo...o determinano motivi di legittimo sospetto". Tradotto: se esiste il ragionevole sospetto che la corte giudicante possa non essere del tutto imparziale, la Corte di Cassazione, su richiesta o del pm o degli avvocati della difesa, può decidere di "rimettere il processo ad altro giudice". Per questo fu battezzata anche col nome di "legge sul legittimo sospetto".
Per la cronaca, quella legge, in relazione ai processi a carico di Silvio Berlusconi, fu completamente inutile visto che fu poi superata dal Lodo Schifani, che regalava l'immunità alle cinque più alte cariche dello stato. I procedimenti non venivano semplicemente rallentati: venivano bloccati del tutto. Ma si sa: quando c'è il fondato pericolo di finire in galera, melius abundare. Fa niente se poi il Lodo Schifani venne polverizzato dalla Corte Costituzionale: la posizione di Silvio Berlusconi era ormai stata stralciata. In compenso la legge Cirami continuò a far danni e da allora venne usata e abusata in altri ambiti per mettere i bastoni tra le ruote alla già lentissima macchina della giustizia italiana.
Sei anni dopo, il cavaliere si insediava per la quarta volta a Palazzo Chigi e, nonostante i peana della stampa che prefiguravano l'avvento di un nuovo messia, di uno statista illuminato che aveva finalmente risolto (?) i suoi problemi con la giustizia e che quindi si sarebbe dedicato anima e corpo ai problemi del paese, la prima mossa fu quella di ripresentare una versione (non troppo) riveduta e corretta del Lodo Schifani, il cosiddetto Lodo Alfano, che aveva sempre un unico scopo: bloccare l'ennesimo processo per corruzione a carico di Silvio Berlusconi. Sappiamo tutti come andò a finire. Giorgio Napolitano appose la propria firma dalla sera alla mattina senza fiatare e come per incanto il premier si trovò d'un balzo al di sopra della legge, al riparo dalle odiate toghe rosse. Fu così che la posizione di Silvio Berlusconi nel processo Mills fu stralciata, in attesa della decisione della Consulta che stabilirà se il Lodo Alfano violi o meno la Carta Costituzionale. Nel frattempo, l'avvocato londinese David Mills, a cui, sfortunatamente per lui, il Lodo Alfano non è applicabile, è stato giudicato colpevole: ricevette da Berlusconi 600 mila dollari in nero per aver testimoniato il falso in un paio di processi a carico dello stesso Berlusconi, riuscendo così a tenerlo fuori dai guai.
La notizia della condanna di David Mills, che dimostrava, di riflesso, la colpevolezza del nostro presidente del consiglio, fu più o meno oscurata dalla stampa, che riuscì nell'impresa titanica di parlare del corrotto (Mills) senza mai nominare il corruttore (Berlusconi), fino ad arrivare a punte di comicità assoluta quando un inviato di Studio Aperto annunciò estasiato la notizia della piena assoluzione del presidente del consiglio. Il poveraccio ignorava probabilmente che il processo a Berlusconi non era nemmeno stato portato a termine, perchè congelato appunto dal Lodo Alfano. Il risultato fu che milioni di Italiani si domandarono disorientati perchè mai i telegiornali italiani si occupassero della condanna di uno sconosciuto avvocato inglese. E quei pochi che capirono la taciuta connessione con il nostro presidente del consiglio ebbero l'idea di trovarsi di fronte all'ennesimo attacco ad orologeria di una magistratura politicizzata. L'immagine radiosa del premier, riconoscito ufficilmente corruttore in atti giudiziari, non venne scalfita di un millimetro.
Il 6 ottobre 2009 la Consulta si riunirà per stabilire se il Lodo Alfano, che protegge il nostro presidente del consiglio da ogni tipo di processo penale, sia incostituzionale o meno. Nell'attesa, l'Italia dei Valori, con l'aiuto di qualche simpatizzante e senza l'appoggio del PD, è riuscita a raccogliere un milione di firme per indire un referendum che spazzi via l'ultima legge-vergogna. Un referendum che non si terrà prima del 2010 e che potrebbe comunque essere inutile nel caso in cui la Consulta cancellasse il Lodo Alfano così come aveva fatto con quello Schifani. O forse no.
Fino a poco tempo fa era dato quasi per certo tra esimi costituzionalisti che il Lodo Alfano non potesse superare lo scoglio della Consulta, intriso com'è di norme che calpestano allegramente i più disparati articoli della Carta Costituzionale. A partire dall'articolo 3, che stabilisce l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
Uno scoop dell'Espresso, a firma di quel grande giornalista d'inchiesta che è Peter Gomez, ha ribaltato però gli scenari futuri. Uno scoop esplosivo che avrebbe dovuto suscitare un moto di indignazione popolare, almeno tra coloro che ancora hanno a cuore il principio illuministico della divisione dei poteri, che sta alla base di ogni compiuta democrazia. Che avrebbe dovuto avere risonanza almeno sui quei giornali che in questi tempi si stanno facendo paladini della libertà di informazione e della moralità della politica. E invece nulla. Il silenzio tombale. Uno scoop giornalistico destinato a rimanere rigorosamente entro i confini dei lettori dell'Espresso e che i tv-dipendenti e i lettori dei vari quotidiani non conosceranno mai. A testimonianza del fatto che le campagne portate avanti da Repubblica e il Corriere sull'inchiesta di Bari non sono tanto fatte in nome della libertà di stampa, quanto per una mera questione economica: più dettagli pruriginosi, più lettori assicurati. Quando si tratta di impegnarsi su faccende delicate che vanno a toccare problemi più alti, legati a palesi conflitti di interessi, tutti tacciono.
Ciò che Peter Gomez ha scoperto e che nessuno fino ad ora ha osato smentire è che, circa un mesetto fa, "in una tiepida sera di maggio", a casa del giudice Luigi Mazzella in via Cortina d'Ampezzo a Roma si sono presentati in gran segreto il premier Silvio Berlusconi, il ministro della Giustizia Angelino Alfano, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta, il presidente della commissione Affari costituzionali del Senato Carlo Vizzini e un altro giudice, collega di Mazzella, Paolo Maria Napolitano.
Il caso vuole che sia Luigi Mazzella che Paolo Maria Napolitano sono due membri della Consulta e che tra tre mesi esatti si dovranno esprimere sulla costituzionalità del Lodo Alfano. La ricostruzione di Peter Gomez parla di una cena in cui si è discusso delle prossime riforme costituzionali in materia di giustizia che il governo vuole attuare. Una bozza di riforma costituzionale in nove punti che andrebbe a stravolgere il sistema giustizia secondo i dettami ormai noti dai tempi di Licio Gelli e del suo Piano di Rinascita Democratica: separazione delle carriere, riforma del Consiglio Superiore della Magistratura, addio all'obbligatorietà dell'azione penale e abolizione della figura degli odiati pubblici ministeri, ridotti a semplici avvocati dell'accusa e costretti a lavorare solo sui reati che il Ministero dell'Interno riterrà di volta in volta rilevanti, garantendo così di fatto l'assoluta impunità dei colletti bianchi.
Ora, che questo fosse il pallino di Silvio Berlusconi, degno erede del suo maestro venerabile Licio Gelli, non era certo un mistero. La cosa che dovrebbe lasciare un tantino perplessi è che queste proposte di riforma costituzionale (che furono considerate eversive ai tempi dello scandalo della P2: altri tempi) sono state avanzate durante la cena proprio da parte dei due giudici costituzionali, con l'avallo del ministro della Giustizia in carica.
Ora io mi chiedo: è normale che due toghe appartenenti alla Consulta, il più alto organo della magistratura italiana, garante della Carta Costituzionale, al di sopra persino del Capo dello Stato, tramino in gran segreto, all'oscuro degli altri membri della Consulta e in via del tutto privata, con dei pezzi dello stato per coordinare un piano che metta mano alla riforma della Costituzione? E' normale che due magistrati, assolutamente indipendenti, sia chiaro, invitino a cena il presidente del Consiglio e il suo entourage per parlare del Lodo Alfano che scherma il presidente del Consiglio stesso e su cui gli stessi dovranno esprimersi di qui ad Ottobre? Esiste forse una leggerissima questione di opportunità che è stata sottovalutata? Esiste forse un leggerissimo conflitto di interessi che è stato bellamente calpestato?
Una notizia, come detto, mai smentita dagli stessi interessati, anzi confermata. La linea di difesa adottata questa volta non è stata quella di negare, negare e negare ancora, anche di fronte all'evidenza (come per esempio ha fatto Berlusconi con l'inchiesta di Bari sul giro di prostitute, appalti truccati, favori, candidature, ricatti e cocaina), ma quella di minimizzare: "Sì, è vero, la cena c'è stata. E allora?". Si è passati dal comportamento fanciullesco di chi viene beccato con le mani nella marmellata e dice di non essere stato lui, al comportamento impudente di chi, beccato con le mani nella marmellata, vuol far passare la cosa come assolutamente normale.
Così si è difeso il diretto interessato, il padrone di casa, Luigi Mazzella, che ha dichiarato: "A cena invito chi voglio e parlo di quello che voglio. A casa mia vengono tutti, dall'estrema sinistra all'estrema destra". Sembra di sentire tali e quali le parole patetiche di Pairetto quando tentava di giustificare le sue telefonate imbarazzanti con Luciano Moggi per decidere quale arbitro avrebbe dovuto dirigere quale partita: "Che male c'è? Mi telefonavano tutti". Solo che qui la partita è ben più importante. Non c'è di mezzo il pallone, ma la stabilità democratica della nostra repubblica. Forse certi personaggi non se ne rendono nemmeno conto e continuano a confondere (o far finta di confondere) il pubblico con il privato. Sentenzia Mazzella: "Non credo che io, da individuo privato, debba dar conto delle cene che faccio". Se però da quelle cene derivano accordi più o meno segreti che andranno a stravolgere la Carta Costituzionale, a rivoluzionare la giustizia in Italia e a decidere le sorti di un governo o di un'intera legislatura (crollando il Lodo Alfano, Berlusconi sarebbe nudo di fronte alle proprie vergogne), questo mi sembra un fatto con una leggerissima valenza pubblica. Che ne dice, Mazzella?
Calpestato il conflitto di interessi, svanisce d'incanto anche la vergogna. Così l'avvocato parlamentare Niccolò Ghedini, difensore d'ufficio del premier e di tutti coloro che gli girano attorno, emblema fulgido e monumento vivente al conflitto di interessi (non si capisce mai se parla come avvocato personale di Silvio Berlusconi per difendere gli interessi del proprio assistito o come parlamentare della repubblica italiana per difendere gli interessi del popolo), non prova il minimo imbarazzo ad affermare: "Non vedo nulla di strano, perchè i giudici non vivono sul monte Athos ed è normale che frequentino le alte cariche".
Forse gli sfugge il fatto che quello svoltosi a casa del giudice Mazzella non è stato un ritrovo tra buontemponi o amici di vecchia data che volevano passare la serata giocando a briscola, ma un incontro segreto tra due fra le più alte personalità della magistratura italiana e una vera e propria delegazione del governo, rappresentato degnamente in tutte le sue forme: presidente del consiglio, sottosegretario, ministro della Giustizia e presidente della commissione affari costituzionali (quest'ultimo, per inciso, è indagato per mafia). Un incontro dal sapore "carbonaro", come l'ha definito l'Espresso.
Sia bene inteso. Nessuno vieta ad un giudice di coltivare tutte le amicizie che vuole, fossero anche con le più alte cariche dello stato. Il problema sorge nel momento in cui quei giudici sono chiamati a giudicare fatti che riguardano quelle alte cariche a loro amiche. Il problema si acuisce se quei giudici sono sorpresi a cospirare in gran segreto con quelle alte cariche a loro amiche. La decenza, prima ancora che la serietà professionale, imporrebbero come minimo l'astensione. Cosa a cui nè Luigi Mazzella, nè Paolo Maria Napolitano pensano minimamente. Il 6 ottobre, come se niente fosse, si pronunceranno in merito alla costituzionalità del Lodo Alfano. Dopo la cenetta segreta con l'ideatore della legge (Alfano) e il beneficiario della legge (Berlusconi), avete voi dei dubbi su che tipo di parere forniranno? A meno di non pensare che essi fossero lì veramente per un torneo di briscola chiamata o, visto l'andazzo, di scopone scientifico.
Perchè poi, se uno va a scavare nel passato delle due toghe, il quadro d'un tratto si chiarisce.
Il giudice Paolo Maria Napolitano venne eletto alla Consulta nel 2006 dopo essere stato capo dell'ufficio del personale del Senato, capo gabinetto di Gianfranco Fini nel secondo governo Berlusconi e consigliere di Stato. Non propriamente un tecnico, quindi. Il giudice Luigi Mazzella, invece, antico militante del Psi di Craxi, fu scelto espressamente da Berlusconi, prima come avvocato generale dello Stato e poi, nel 2003, come ministro della Funzione pubblica del governo Berlusconi II, in sostituzione di Franco Frattini, volato a Bruxelles come commissario europeo. Tutto questo senza che Mazzella desse le dimissioni dal primo incarico. Unico caso dal dopoguerra in poi di un avvocato dello Stato facente anche funzioni di ministro. Precursore ante litteram del conflitto di interessi. Un uomo che avrebbe dovuto difendere gli interessi dello Stato anche quando non coincidevano con quelli del governo. E viceversa. Tutt'altro che imbarazzato, Mazzella svolse le sue due funzioni con solerzia e per questo fu ripagato, sempre da Berlusconi, nel 2005, con una poltrona alla Consulta.
La sua elezione è un pezzo di storia repubblicana da ricordare. Fu un compromesso, un inciucio diremmo oggi, tra maggioranza e opposizione, le quali si misero d'accordo sui nomi da votare per i due posti rimasti vacanti alla Consulta. Forza Italia propose Luigi Mazzella, spacciato per "tecnico", ma cresciuto, come abbiamo visto, sotto l'ala protettrice di Berlusconi. I Ds e Margherita proposero un certo Gaetano Silvestri. Prima si votò per Mazzella che ottenne voti bipartisan e ottenne la poltrona. Il giorno dopo si votò per Silvestri e, incredibilmente, nonostante l'accordo, il candidato del centrosinistra non ottenne abbastanza voti. Incidente di percorso, dissero. Il giorno successivo si sarebbe sistemato tutto. Infatti: la seconda votazione fu ancora più disastrosa, con la maggioranza e anche parti dell'opposizione che tradirono e remarono contro. Piccolo quadretto da incorniciare per chi, a intervalli più o meno regolari, auspica un dialogo sereno con il cavaliere.
Sullo scandalo della cena segreta l'opposizione tace. I giornali tacciono. Le televisioni tacciono. Di Pietro sul suo piccolo blog, unico nel panorama politico, ha chiesto le dimissioni delle due toghe, evidentemente rosse e antropologicamente diverse, ma che non disdegnano la compagnia privata del premier. Forse perchè Di Pietro è stato da sempre l'unico a battersi per l'abolizione del Lodo Alfano. Fatto sta che non è certo per un post sul suo blog che Mazzella e Napolitano faranno un passo indietro. Cosa può fare un blog contro il silenzio di tutta la stampa? Niente, appunto.
E' possibile avere il legittimo sospetto che questi due giudici saranno tutt'altro che sereni nel giudicare il Lodo Alfano? E' possibile avere il legittimo sospetto che, quando si tratterà di giudicare le prossime leggi di riforma costituzionale che il governo ha già annunciato di proporre, i due non saranno del tutto imparziali?
So bene che la legge Cirami sul legittimo sospetto si applica solo ai procedimenti penali e non tocca i membri della Corte Costituzionale. Ma non dovrebbe essere automatico, secondo i più basilari dettami della deontologia professionale, che dei giudici si astengano dal dare giudizi su leggi fatte da e per coloro con cui si intrattengono in modo conviviale allo stesso tavolo? E non dovrebbe essere auspicabile che il governo rispetti, se non le leggi da lui stesso votate (sarebbe chiedere troppo), almeno i dettami che le hanno ispirate?
E Napolitano non ha niente da dire in proposito? Napolitano Giorgio, intendo. Non Paolo Maria.
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