sabato 2 maggio 2009

Il silenzio dello stato


Esattamente sette mesi fa, il 2 ottobre 2008, alle 8:30 del mattino, il professor Adolfo Parmaliana esce di casa, sale sulla sua BMW 320 e imbocca l'autostrada Palermo-Messina. Giunto in prossimità di un viadotto all'altezza di Patti Marina, ferma la macchina e si butta di sotto. Si sfracellerà dopo un salto di 35 metri nel vuoto. A casa, nel suo studio, aveva lasciato una lettera d'addio.

Comincia così: "La Magistratura barcellonese/messinese vorrebbe mettermi alla gogna vorrebbe umiliarmi, delegittimarmi, mi sta dando la caccia perché ho osato fare il mio dovere di cittadino denunciando il malaffare, la mafia, le connivenze, le coperture e le complicità di rappresentanti dello Stato corrotti e deviati. Non posso consentire a questi soggetti di offendere la mia dignità di uomo, di padre, di marito di servitore dello Stato e docente universitario. Non posso consentire a questi soggetti di farsi gioco di me e di sporcare la mia immagine, non posso consentire che il mio nome appaia sul giornale alla stessa stregua di quello di un delinquente. Hanno deciso di schiacciarmi, di annientarmi. Non glielo consentirò, rivendico con forza la mia storia, il mio coraggio e la mia indipendenza. Sono un uomo libero che in maniera determinata si sottrae al massacro ed agli agguati che il sistema sopraindicato vorrebbe tendergli".

Adolfo Parmaliana, poco più che cinquantenne, padre di due figli, professore di chimica industriale all'università di Messina, stimato anche a livello internazionale, da sempre attivista politico, prima nelle file del Partito Comunista poi, di recente, nel Partito Democratico, consulente di Veltroni nel 2002 al comune di Roma, dopo una vita di battaglie passata a denunciare il malaffare e la contiguità tra la politica, la magistratura e la criminalità organizzata, decide improvvisamente di togliersi la vita: "Mi sento un uomo finito, distrutto. Vi prego di ricordarmi con un sorriso, con una preghiera, con un gesto di affetto, con un fiore. Se a qualcuno ho fatto del male chiedo umilmente di volermi perdonare. Ho avuto tanto dalla vita. Poi, a 50 anni, ho perso la serenità per scelta di una magistratura che ha deciso di gambizzarmi moralmente".

Sulla morte di Adolfo Parmaliana, uno dei figli migliori che la Sicilia abbia mai conosciuto, è calato il silenzio della stampa. In realtà, la vicenda è complessa e mette in luce quell'intricato sistema di rapporti, clientele, contiguità mafiose che hanno fatto del territorio di Messina (e non solo) una terra di nessuno, dove non esiste più alcuna distinzione tra le guardie e i ladri, perchè entrambi sono organici ad uno stesso sistema degenerato, sono amici, sono complici, hanno gli stessi interessi, si coprono e si difendono a vicenda. E' chiaro che, in una situazione del genere, la voce solitaria di un uomo "ammalato" di Giustizia e Legalità risulta troppo pericolosa, troppo inopportuna, troppo invadente.

La storia è questa. Tra il 1995 e il 1998 Parmaliana, insofferente al sistema di potere mafioso che vedeva operare indisturbato sotto i propri occhi, inizia a presentare numerose denunce nei confronti dell'amministrazione comunale del proprio paese, Terme Vigliatore, di cui era stato anche consigliere comunale. Le sue denunce riguardano in particolare il sindaco Bartolo Cipriano, rieletto tre volte di fila e che fa il bello e il cattivo tempo nell'assegnazione degli appalti, nella creazione dei piani regolatori, nella gestione degli uffici e dei tecnici comunali. Come un tarlo instancabile, Parmaliana opera come una costante spina nel fianco mettendo in luce ogni tipo di irregolarità, ogni situazione sospetta.

Questa serie di denunce finisce nelle mani della procura di Barcellona Pozzo di Gotto ed assegnate dall'allora capo Rocco Sisci al sostituto Olindo Canali. Tenete bene a mente questo nome: Olindo Canali. Vengono aperti ben sette fascicoli. Nessuno di questi avrà un seguito. Nonostante le richieste insistenti di Parmaliana di non fare morire le indagini, dalla procura non gli perviene alcuna risposta. Nel 1998 allora Parmaliana decide di rivolgersi alla procura generale per l'avocazione dei procedimenti. Per quattro lunghi anni il sostituto procuratore generale Marcello Minasi tentò di acquisire informazioni su questi procedimenti, ma nel 2002 si vide costretto, per decorrenza dei termini, ad archiviare il tutto.

Queste le parole pesantissime con cui Minasi archivia il caso: "Risulta dagli esposti del Parmaliana, un impressionante spaccato di malcostume, cattiva amministrazione, inefficienza, manipolazione dei pubblici poteri per interesse personale, impudente confusione tra la funzione pubblica ed il privilegio personale e familiare che certamente non hanno trovato una adeguata risposta né negli organi giurisdizionali né da quelli di controllo amministrativo e contabile... quei comportamenti che integrano la fattispecie dell’abuso d’ufficio e dell’omissione degli atti d’ufficio risalgono, i più recenti, al 1995, pertanto già da alcuni anni tali reati si sono prescritti senza che sia stato fatto alcun atto di interruttivo o addirittura senza alcun atto di indagine. In conclusione, dalla miriade degli atti irregolari, illegittimi ed illeciti resta la accorata ed inascoltata denuncia del Parmaliana sì che non appare eccessiva la descrizione del comportamenti degli organi preposti al controllo di legittimità ed efficienza ed alla repressione degli illeciti come silenzio dello stato".

L'accusa è durissima: nella procura di Barcellona P.G. esiterebbe una cupola giudiziaria connivente con il sistema mafioso e facente capo a Rocco Sisci e Olindo Canali, che ha sapientemente insabbiato, una per una, tutte le accurate denunce pervenutegli per mano del professor Parmaliana. In realtà, un'informativa del Capitano dei Carabinieri Domenico Cristaldi, denominata Tsunami, aveva scoperchiato nel 2005 questo intreccio di connivenze e malaffare. Nell'informativa del maggio 2005 Cristaldi rende noto alla magistratura che addirittura lo stesso Sisci era a conoscenza delle indagini nei confronti del suo sostituto Canali e aveva informato lo stesso degli elementi compromettenti emersi a suo carico.

E' uno spaccato inquietante quello che emerge dall'informativa del Capitano Cristaldi. In particolare, i sostituti procuratori di Barcellona P.G. e Messina, rispettivamente Olindo Canali e Antonio Franco Cassata, risultano aver intrattenuto rapporti pericolosi con esponenti di rilievo della criminalità organizzata. Canali è stato visto cenare in compagnia di Salvatore Rugolo, figlio di uno dei boss più potenti della zona, ucciso nel 1987 e cognato del capomafia barcellonese Giuseppe Gullotti, all’ergastolo per l’omicidio del giornalista Beppe Alfano. Gullotti, tanto per dire, è quello che ha fatto pervenire a Brusca il telecomando per attuare la strage di Capaci.

Antonio Franco Cassata invece è un caso ancora peggiore. Ininterrottamente in servizio alla Procura generale di Messina, con funzioni di sostituto, dal 1989 gode di un potere pressochè incontrastato. In barba al principio di rotazione dei magistrati, lui è da più di vent'anni che gestisce la procura come fosse cosa sua. Su di lui pendono numerosissime ombre. Il boss Giuseppe Gullotti era socio e frequentatore, insieme a numerosissimi esponenti della massoneria barcellonese, del circolo "Corda Fratres", di cui Cassata era il presidente. Di questo circolo faceva parte anche il famoso Rosario Cattafi, già indagato dalla procura di Caltanissetta per le stragi di Capaci e via D'Amelio a causa dei suoi accertati legami con boss del calibro di Nitto Santapaola. Nel 1974 Cassata era stato protagonista di un viaggio in auto a Milano in compagnia del boss Giuseppe Chiofalo, confermato da quest'ultimo. Nel settembre 1994, durante la latitanza di Gullotti, Cassata viene sorpreso mentre si intrattiene a parlare con la moglie del boss. Nel 2002 fa pervenire al CSM un articolo della Gazzetta del Sud in cui il boss Gullotti dichiarerebbe di volere la morte dello stesso Cassata "perchè inavvicinabile". Un maldestro tentativo di togliersi di dosso accuse infamanti, purtroppo risultato clamorosamente falso. Nel 2003, nel museo etnografico di Barcellona P.G. fondato da Cassata, tra le proteste indignate dei parenti delle vittime, vengono esposte le lamiere contorte e carbonizzate della vettura blindata su cui viaggiavano Falcone e la moglie: non manca nemmeno il telecomando con cui è stato azionato il tritolo.

Nonostante tutto ciò, l'informativa Tsunami cade nel vuoto. Viene rimpallata tra le procure di Barcellona, Messina e Reggio Calabria fino a perdersi nelle nebbie più cupi. E' però nel 2005 che Parmaliana sembra avere la sua più grande rivincita. In seguito alle sue denunce, ci pensa il Presidente della Repubblica ad intervenire e sciogliere il consiglio comunale di Terme Vigliatore per infiltrazioni mafiose. Un'intera amministrazione collusa azzerata per opera del lavoro instancabile del professor Parmaliana. Sorprendentemente (oppure no), nessuno degli amministratori locali riceverà un avviso di garanzia da parte della procura competente di Barcellona P.G. Anzi, nel 2007, il pm Andrea De Feis che aveva coordinato l'indagine Tsunami e che aveva denunciato i tentativi intimidatori dello stesso Cassata perchè venisse archiviata, viene trasferito a Macerata. Non solo. Viene trasferito anche il Capitano dei Carabinieri Cristaldi che aveva condotto le indagini in prima persona.

Incredibilmente (oppure no), gli indagati sono invece ancora tutti al loro posto. Attorno al professore si va il vuoto. I suoi appelli a Veltroni perchè si interessasse delle collusioni mafiose all'interno della magistratura cadono nel vuoto. Parmaliana comincia a farsi nemici pure all'interno dei DS. Nel 2006 verrà minacciato e aggredito. L'allora segretario Fassino, informato dell'accaduto, non muoverà un dito. La sua colpa era quella di aver attaccato l'ex sindaco di Messina e attuale segretario del PD siciliano Francantonio Genovese, in affari con la potentissima famiglia Franza, il quale nel 2007 dichiarò che nella sua città "la mafia non esiste, al massimo qualche mela marcia".

Prima che dalla mafia, Parmaliana fu isolato dai suoi stessi compagni di partito. Fino alla beffa finale. Lo scorso ottobre la procura di Barcellona P.G., quella di Olindo Canali per intenderci, non lascia cadere una querela per diffamazione nei suoi confronti e lo rinvia a giudizio. La sua colpa, dopo che il consiglio comunale della sua città era stato sciolto, sarebbe quella di aver appeso un paio di manifesti in cui era scritto: "Abbiamo vinto! Abbiamo cacciato i mafiosi!". E' l'ultimo affronto, l'ultima provocazione di una procura che gli ha dichiarato guerra. Lui che ha combattuto tutta una vita per denunciare il sistema di potere mafioso dovrà comparire davanti a un giudice per difendersi da un'accusa ridicola.

Come non bastasse, il CSM presieduto da Nicola Mancino, nonostante le interrogazioni parlamentari di Beppe Lumia e Antonio Di Pietro, decide di promuovere Cassata, quello delle frequentazioni mafiose col boss Gullotti, a capo della procura di Messina. Nel suo paese, solo tre anni dopo lo scioglimento del consiglio comunale, tornano trionfalmente in municipio le stesse persone che Parmaliana aveva contribuito a far allontanare. Il professore non ce la fa più. Ha perso ogni fiducia nelle istituzioni. Ha capito che il sistema non è in alcun modo scalfibile. Saluta tutti, ringrazia chi gli è stato vicino e, nel silenzio, si butta da un ponte.

A sette mesi esatti dalla sua morte, Cassata presiede orgogliosamente la procura di Messina, intoccabile come da vent'anni a questa parte. Olindo Canali invece ha mandato qualche giorno fa una lettera anonima, poi da lui stesso rivendicata, per depistare un altro processo di mafia in corso, denominato "Mare magnum". Lancia strali contro l'avvocato di Parmaliana, Fabio Repici, si autoaccusa in pratica di connivenza con la mafia, dice di temere di essere arrestato da un momento all'altro, difende il boss Gullotti asserendo che non è lui il sicario di Beppe Alfano (sedici anni dopo l'omicidio), afferma di sapere la verità, ma non la dice.

Tutto questo quadro agghiacciante nel completo silenzio dello stato. Nel silenzio di un CSM troppo occupato a punire De Magistris, la Forleo e la procura di Salerno per aver fatto il loro dovere. Nel silenzio di un ministro della Giustizia che manda ispezioni per controllare che i rom (anche se non sono colpevoli) stiano in carcere e che la procura di Bari non indaghi troppo sul suo compagno di partito Raffaele Fitto.

Adolfo Parmaliana conclude così la sua lettera di addio: "Questo sistema l'ho combattuto in tutte le sedi istituzionali. Ora sono esausto, non ho più energie per farlo e me ne vado in silenzio. Alcuni dovranno avere qualche rimorso, evidentemente il rimorso di aver ingannato un uomo che ha creduto ciecamente, sbagliando, nelle istituzioni. Un abbraccio forte forte da un uomo che fino ad alcuni mesi addietro sorrideva alla vita".

3 commenti:

Anonimo ha detto...

quante storie simili ci sono state...

panormo ha detto...

non conoscevo la vicenda. Ti ringrazio d'averne scritto.

Anonimo ha detto...

noi non dimentichiamo.