venerdì 24 ottobre 2008

Marcello, Silvio e la mafia (parte 30)

Tutti i fatti e le testimonianze riportati di seguito sono tratti dalla sentenza di primo grado dell'11 dicembre del 2004 da parte della II sezione penale del Tribunale di Palermo, che ha condannato l'imputato Marcello Dell'Utri a nove anni di reclusione.

CAPITOLO 30

Le conclusioni del Tribunale

Dopo sette lunghi anni di indagini e udienze, in cui si sono susseguite le deposizioni di numerosi testimoni venuti in contatto con gli imputati Marcello Dell'Utri e Gaetano Cinà, di ufficiali giudiziari, di collaboratori di giustizia, dopo due consulenze finanziarie, redatte dal dott. Francesco Giuffrida e dal prof. Paolo Iovenitti, dopo vari sequestri di oggetti personali e documenti presso istituti di credito, dopo avere passato al setaccio un'enorme quantità di documenti “rappresentativi di fatti, persone, cose”, tra i quali fotografie e filmati televisivi, dopo aver vagliato innumerevoli intercettazioni telefoniche e ambientali nell'ambito di questo ed altri procedimenti penali, l'11 dicembre 2004, la II Sezione Penale del Tribunale di Palermo, composta dai giudici Leonardo Guarnotta (Presidente), Gabriella Di Marco e Giuseppe Sgadari (Giudici Estensori), formula le proprie considerazioni conclusive.

L’indagine dibattimentale ha avuto ad oggetto fatti, episodi ed avvenimenti dipanatisi nell’arco di quasi un trentennio e cioè dai primissimi anni ‘70 sino alla fine del 1998, quando il dibattimento era in corso da circa un anno, ed ha esplorato le condotte tenute dai due prevenuti in tale notevole lasso di tempo ed, in particolare, ha analizzato l’evolversi della carriera di Marcello Dell’Utri da giovane laureato in giurisprudenza a modesto ma ambizioso impiegato di un istituto di credito di un piccolo paese della provincia di Palermo, a collaboratore dell’amico Silvio Berlusconi (sirena al cui richiamo non aveva saputo resistere rinunciando ad un sicuro posto in banca ed allontanandosi definitivamente dalla natia Palermo), ad amministratore di una impresa in stato di decozione del gruppo facente capo a Filippo Alberto Rapisarda (con il quale ha intrattenuto, per sua stessa ammissione, un rapporto di amore-odio), a ideatore e creatore della fortunata concessionaria di pubblicità Publitalia, polmone finanziario della Fininvest, ad organizzatore del nascente movimento politico denominato Forza Italia, a deputato nazionale nel 1996, a parlamentare europeo nel 1999 ed, infine, a senatore della Repubblica nel 2001.

Ad avviso del Collegio, l’accurata e meticolosa indagine dibattimentale ha consentito di acquisire inoppugnabili elementi di riscontro alle condotte (anche se non a tutte, come già si è avuto modo di rilevare) contestate ai due imputati e dettagliatamente descritte nei capi di imputazione. In particolare, Tanino Cinà è stato rinviato a giudizio davanti questo Tribunale per rispondere dell’addebito di avere “fatto parte dell’associazione mafiosa denominata Cosa Nostra o per risultare, comunque, stabilmente inserito nella detta associazione”.

L’accusa ha trovato granitica conferma, come si è già avuto modo di evidenziare nelle parti della sentenza dedicate al vaglio delle condotte del Cinà, nelle inequivoche ed incontrovertibili risultanze dell’indagine dibattimentale dalle quali è emerso, attraverso l’acquisita prova delle sue condotte, che l’imputato, pur non risultando mai formalmente “iniziato”, è stato, di fatto, un membro della famiglia mafiosa di Malaspina, un gruppo di “uomini d’onore” avente “giurisdizione” sul territorio di quel quartiere palermitano, ed è stato, per lungo tempo, al servizio attivo di Cosa Nostra che lo ha “utilizzato” per il conseguimento dei suoi fini illeciti. Ed invero, sebbene la sua qualità di “uomo d’onore” posato (per asserite questioni familiari) non è rimasta provata anche alla luce delle attendibili dichiarazioni di Di Carlo Francesco e Galliano Antonino, l’imputato Cinà Gaetano ha intrattenuto stretti e continui rapporti con numerosi uomini di Cosa Nostra e non gli sono mai venute meno la fiducia e la grande considerazione di esponenti di spicco di quella associazione criminale, i quali erano ben consapevoli del suo antico rapporto di amicizia con Marcello Dell’Utri (sempre ammesso da entrambi gli imputati) che avrebbe loro consentito di “utilizzare” lo stesso Dell’Utri come indispensabile tramite per avvicinarsi ad un imprenditore milanese del calibro di Silvio Berlusconi.

E’ rimasta, dunque, inconfutabilmente raggiunta la prova non solo dell’inserimento di fatto del Cinà nella “famiglia” di Malaspina e, quindi, in Cosa Nostra, associazione per delinquere di tipo mafioso, ma anche la prova di condotte di partecipazione consistenti in importanti, continui e volontari apporti causali al mantenimento in vita di quel sodalizio, tra le quali basta ricordare la riscossione ed il versamento nelle casse di Cosa Nostra della somma di denaro erogata per diversi anni dalla Fininvest e l’iniziale partecipazione all’assunzione ad Arcore di Vittorio Mangano con l’avallo dei capimafia Bontate e Teresi.

A Marcello Dell’Utri è stato fatto carico del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, secondo la sostanziale differenza e distinzione sussistente, come si è evidenziata in altra parte della motivazione, tra la condotta del concorrente e quella del partecipe. Gli elementi probatori emersi dall’indagine dibattimentale espletata hanno consentito di fare luce: sulla posizione assunta da Marcello Dell’Utri nei confronti di esponenti di Cosa Nostra, sui contatti diretti e personali con alcuni di essi (Bontate, Teresi, oltre a Mangano e Cinà), sul ruolo ricoperto dallo stesso nell’attività di costante mediazione, con il coordinamento di Cinà Gaetano, tra quel sodalizio criminoso, il più pericoloso e sanguinario nel panorama delle organizzazioni criminali operanti al mondo, e gli ambienti imprenditoriali e finanziari milanesi con particolare riguardo al gruppo Fininvest; sulla funzione di “garanzia” svolta nei confronti di Silvio Berlusconi, il quale temeva che i suoi familiari fossero oggetto di sequestri di persona, adoperandosi per l’assunzione di Vittorio Mangano presso la villa di Arcore dello stesso Berlusconi, quale “responsabile” (o “fattore” o “soprastante” che dir si voglia) e non come mero “stalliere”, pur conoscendo lo spessore delinquenziale dello stesso Mangano sin dai tempi di Palermo (ed, anzi, proprio per tale sua “qualità”), ottenendo l’avallo compiaciuto di Stefano Bontate e Teresi Girolamo, all’epoca due degli “uomini d’onore” più importanti di Cosa Nostra a Palermo; sugli ulteriori rapporti dell’imputato con Cosa Nostra, favoriti, in alcuni casi, dalla fattiva opera di intermediazione di Cinà Gaetano, protrattisi per circa un trentennio nel corso del quale Marcello Dell’Utri ha continuato l’amichevole relazione sia con il Cinà che con il Mangano, nel frattempo assurto alla guida dell’importante mandamento palermitano di Porta Nuova, palesando allo stesso una disponibilità non meramente fittizia, incontrandolo ripetutamente nel corso del tempo, consentendo, anche grazie a Cinà, che Cosa Nostra percepisse lauti guadagni a titolo estorsivo dall’azienda milanese facente capo a Silvio Berlusconi, intervenendo nei momenti di crisi tra l’organizzazione mafiosa ed il gruppo Fininvest (come nella vicenda relativa agli attentati ai magazzini della Standa di Catania e dintorni), chiedendo al Mangano ed ottenendo favori dallo stesso (come nella “vicenda Garraffa”) e promettendo appoggio in campo politico e giudiziario.

Queste condotte sono rimaste pienamente ed inconfutabilmente provate da fatti, episodi, testimonianze, intercettazioni telefoniche ed ambientali di conversazioni tra lo stesso Dell’Utri e Silvio Berlusconi, Vittorio Mangano, Gaetano Cinà ed anche da dichiarazioni di collaboratori di giustizia; la pluralità dell’attività posta in essere, per la rilevanza causale espressa, ha costituito un concreto, volontario, consapevole, specifico e prezioso contributo al mantenimento, consolidamento e rafforzamento di Cosa Nostra alla quale è stata, tra l’altro, offerta l’opportunità, sempre con la mediazione di Marcello Dell’Utri, di entrare in contatto con importanti ambienti dell’economia e della finanza, così agevolandola nel perseguimento dei suoi fini illeciti, sia meramente economici che, lato sensu, politici.

Non c’è dubbio alcuno, alla luce delle considerazioni che precedono e di tutto quanto oggetto di analisi nei singoli capitoli ai quali si rinvia, che le condotte tenute dai prevenuti si sussumono nelle fattispecie previste e sanzionate dagli artt. 416 e 416 bis c.p. delle quali ricorrono tutti gli elementi costitutivi. Ma ricorrono, anche, le contestate aggravanti di cui ai commi 4° e 6° dell’art. 416 bis c.p. Ed invero, la sussistenza di tali aggravanti va ritenuta qualora il reato de quo sia contestato agli appartenenti ad una “famiglia” aderente a Cosa Nostra od al concorrente esterno, in quanto l’esperienza storica e giudiziaria consentono di ritenere il carattere armato di detta organizzazione criminale (Cass. 14.12.99, D’Ambrogio, CP 01,845) e la sua prerogativa di operare nel campo economico utilizzando ed investendo i profitti di delitti che tipicamente pone in essere in esecuzione del divisato programma criminoso (Cass. 28.1.00, Oliveti, CED 215908, CP 01, 844)”.


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